Paolo Ciarchi e quella Milano sorprendente degli anni ’60
Non solo musica Scomparso a 76 anni il musicista che collaborò con Fo e Jannacci. Aveva cominciato da giovane, lui milanese del 1942, accompagnando nei diversi locali i cabarettisti negli anni Sessanta. Poi l’incontro con il Nuovo Canzoniere italiano di Roberto Leydi e Gianni Bosio che riscoprono la canzone popolare.
Non solo musica Scomparso a 76 anni il musicista che collaborò con Fo e Jannacci. Aveva cominciato da giovane, lui milanese del 1942, accompagnando nei diversi locali i cabarettisti negli anni Sessanta. Poi l’incontro con il Nuovo Canzoniere italiano di Roberto Leydi e Gianni Bosio che riscoprono la canzone popolare.
Raccontava Paolo Ciarchi che in sanscrito il termine cantante significa «colui che sa respirare». Ora Paolo non respira più, quindi non canta più. Purtroppo. Ma a noi sono rimaste infinite testimonianze del suo inafferrabile talento di cantante, ma anche di musicista, di rumorista, di performer e soprattutto di uomo attento agli altri. Aveva cominciato da giovane, lui milanese del 1942, accompagnando nei diversi locali i cabarettisti negli anni ‘60. Poi l’incontro con il Nuovo Canzoniere italiano di Roberto Leydi e Gianni Bosio che riscoprono la canzone popolare. E nel 1966 con Nuova scena partecipa alla prima messa in scena per la regia di Dario Fo di «Ci ragiono e canto», in collaborazione con l’Istituto Ernesto De Martino di Cesare Bermani e Franco Coggiola. E in una pausa delle prove nasce un brano divenuto poi famoso: «Ho visto un re».
RACCONTA PAOLO che lui e Dario durante queste pause strimpellavano cose, tenendo acceso il registratore perché non si sa mai. E a un certo punto Fo canta la strofa «ho visto un re», passa Carpo Lanzi del quartetto di Piadena che replica «se l’ha vist cos’è?» e viene subito inglobata nel pezzo. Sempre Paolo ricorda che il canovaccio si basava su un canto dell’Amiata, ripreso da Caterina Bueno, chiamato «bei», con le voci maschili che fanno da accompagnamento con il «be» molto basso e la «i» alta. E questo è diventato «a beh, sì beh». Nasce così il brano composto da Ciarchi, musica e Fo, testo, poi ripreso da molti, compreso Jannacci che secondo Paolo non sapeva neppure come fosse nata quella canzone.
In quello spettacolo, tra gli altri, ci sono anche Giovanna Marini e Ivan Della Mea. Con Ivan scrivono il brano «Piccolo Uomo» che poi esce come 45 giri di Paolo Ciarchi che porta sull’altro lato una delle più belle canzoni d’amore e d’impegno mai scritte: «Una cosa già detta» di Fausto Amodei. Una curiosità, «Piccolo uomo» viene eseguita da Paolo, accanto a Carla Gravina, anche in «Cuore di mamma» di Salvatore Samperi del 1969.
QUELLO È IL MONDO in cui si è formato Paolo Ciarchi e al quale è sempre rimasto fedele nel corso degli anni. Eccolo per esempio che racconta di come si volessero realizzare canzoni che non fossero tristi, perché il canto popolare era permeato da disgrazie, quindi ricorda Paolo Pietrangeli che scrive «Karlmarxstrasse», ossia «se per esempio corso Umberto si chiamasse Karlmarxstrasse/o una strada che più grande non ce n’è Leninallee», cantata felicemente a squarciagola. Per chi non avesse avuto la fortuna di vederlo o di sentirlo il consiglio è di curiosare tra i tanti video che lo vedono protagonista. Non solo quello in cui racconta l’origine di «Ho visto un re», ma anche la Microconferenza di musicologia applicata in cui spazia dalla respirazione del cantante agli Yanomami dell’Amazzonia o ancora quando canta brani di Della Mea come «Io so che un giorno».
MA C’È UN ALTRO FILMATO, realizzato da Luca Musella e Michele Sordillo che vale la pena vedere. Il titolo è «Blues e Roses» e Paolo spiega appunto che il blues, la tristezza, va bene, però bisogna anche pensare al roses, all’aspetto più solare della vita. E in tutto questo si vede Paolo in diverse situazioni, prevalentemente su scenari milanesi, talvolta con Isabella. L’aspetto è buffo perché non si capisce se lui sia un idraulico, un muratore, un minatore, uno stagnino perché gli strumenti che porta con sé sono davvero fuori norma, fuori da ogni canone musicale, non solo classico.
Eppure da quei tubi, da quei ferri picchiettati ovunque, Paolo riesce a fare musica a restituire piacere a chi lo sta ascoltando, a dare frammenti di storia della canzone popolare, ma anche di lavori che forse non esistono più (chi sa oggi cosa sono gli scariolanti?). Ecco Paolo prima che cantante, musicista, compositore, intrattenitore, educatore è stato un comunicatore, possedeva la capacità di affabulare, sempre nuovo, sempre originale, mai banale, da vero testimone di quel manipolo di milanesi che negli anni ’60 hanno cambiato completamente approccio. Molti hanno avuto successi travolgenti, alcuni ne hanno un po’ approfittato, Paolo ha tenuto la schiena diritta e l’irriverenza di chi è sempre pronto a dire la sua fuori moda, fuori tempo, anche stonando ma con una magnifica coerenza che ce lo fa mancare. Tanto.
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