Visioni

Paolo Benvenuti: «Mi sono battuto tutta la vita per rendere la storia affascinante»

Paolo Benvenuti: «Mi sono battuto tutta la vita per rendere la storia affascinante»Paolo Benvenuti nel 2003 – foto di Gabriella Mercadini, archivio manifesto

Paolo Benvenuti Intervista con il regista in occasione del ritorno in sala di «Puccini e la fanciulla» e degli altri suoi film. La parola e l’azione al cinema, le giovani generazioni, gli inizi con l’underground e la situazione politica

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 14 marzo 2024

Tornano in sala i film di Paolo Benvenuti, a partire dall’ultimo, Puccini e la fanciulla, che ormai risale a sedici anni fa, cui seguiranno gli altri (Il bacio di Giuda, Confortorio, Tiburzi, Gostanza da Libbiano, Segreti di stato). Una filmografia potente e appartata, quella del cineasta nato a Pisa nel 1946, iniziata alla fine degli anni Sessanta, segnata dagli incontri con Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, da uno sguardo denso e rigoroso mai venuto meno e che, grazie al progetto di distribuzione di Bloom, ci si augura possa essere scoperto da nuovi spettatori.

Dopo la presentazione alla Mostra di Venezia nel 2008, «Puccini e la fanciulla» non ebbe mai una vera distribuzione. Cosa accadde?

Il film andò incontro a una serie di strascichi, polemiche, processi. Finii anche due volte in tribunale. Simonetta Puccini, la cosiddetta nipote di Giacomo Puccini, si oppose in maniera violentissima non solo contro il film, ma contro tutto il lavoro di ricerca che avevo fatto insieme ai miei studenti della scuola di cinema del Comune di Viareggio chiamata Intolerance. Quel lavoro si rivelò una vera caccia al tesoro, mi fece scoprire una valigia piena di documenti che mi servirono per ricostruire le vere ragioni del suicidio della giovane cameriera di Puccini, Doria Manfredi. Ragioni che non consentivano di far fare una bella figura al maestro perché, in qualche modo, la causa del suicidio era stata determinata da lui stesso. Inoltre, quei documenti mettevano a fuoco anche un altro fatto: fin dal 1908 Puccini aveva intrapreso una relazione extraconiugale con Giulia Manfredi, cugina di Doria, durata fino alla sua morte. Lei ebbe un figlio, Antonio, e dalle fotografie la somiglianza con Puccini è impressionante. Era il suo figlio illegittimo. Era soprattutto questa storia che Simonetta Puccini non voleva trapelasse anche perché essere eredi del musicista significava godere della metà dei diritti d’autore, quindi avere degli introiti enormi. Mise quindi in moto tutte le sue conoscenze creando una situazione di terrorismo nei confronti di qualunque tipo di distribuzione per cui, di fatto, in Italia il film non è mai uscito. Adesso, grazie al centenario della nascita di Puccini, trova una nuova vita.

Il film non ha dialoghi.

Una scena da “Puccini e la fanciulla”

È stata una scelta precisa, didattica. Ai miei studenti faccio fare sempre esercizi muti, con i suoni ma senza l’accompagnamento della parola perché se vuoi che un giovane si esprima con il cinema, cioè con l’arte del movimento, lo devi far lavorare sul muto e portarlo a capire che la parola è semplicemente un elemento in più perché il cinema è un fatto di azioni, la rappresentazione di azioni, un racconto di azioni. Questo per me è fondamentale. Non per niente «azione» è la parola tipica del regista quando dà il via alle riprese.

E il film comincia con un ciak…

Esatto. Quella è un’altra mia fissa, cioè dire: attenzione, questa non è la verità, ma una mia interpretazione poetica di una possibile realtà. Lo dico sempre, anche in film ancora più duri di questo, tipo Segreti di stato: sono qui a proporre un punto di vista, di lettura, diverso, sul quale si può riflettere, si può e si deve discutere.

Tutti i suoi lungometraggi sono ambientati in epoche passate e dai quei tempi lontani si interrogano sull’oggi.

Sono una persona che ama la Storia, ovvero la Cenerentola della nostra istruzione pubblica per come la si insegna facendola odiare agli studenti. Questo è l’atteggiamento che i nostri giovani hanno nei confronti della Storia – qualcosa di noioso. Ma ciò è voluto politicamente. Vale a dire, creare delle generazioni prive di radici storiche è uno dei principi fondamentali che il potere dominante ha per controllare la gente. La gente senza radici è più facile da controllare di quella che ha consapevolezza dei processi storici. Tutta la vita, anche come insegnante, mi sono battuto affinché la Storia fosse raccontata in maniera affascinante, coinvolgente. È quello che ho cercato di esprimere con i miei film – quelli che sono riuscito a fare, purtroppo ce ne sono tanti che non ho potuto realizzare perché il sistema a un certo punto si è reso conto che quello che facevo era, da una parte, fastidioso e, dall’altra, non possedeva quell’appeal commerciale tale per cui conveniva continuare a produrlo. Il lavoro che sta dietro ogni mio film è finalizzato a far riflettere gli spettatori sul fatto che, se non si ha consapevolezza della Storia, non siamo nemmeno in grado di giudicare il nostro presente. Vale soprattutto per i giovani: se non sanno da dove arrivano, non possono progettare dove andranno.

Uno scatto da «Il bacio di Giuda» (1988) foto archivio manifesto

Come vede il cinema italiano odierno un autore indipendente e autonomo come lei è sempre stato?

Mi sento talmente estraneo dal cinema italiano… L’unica persona che stimo, e sento come un fratello, è Franco Maresco. Intanto, per la sua grande umanità e poi perché il suo è un cinema di grande coraggio. Considero Totò che visse due volte uno dei capolavori del cinema italiano contemporaneo. Ogni tanto vedo anche delle cose più o meno interessanti, ma mi sembra che dietro ci sia comunque un pensiero, un atteggiamento, un’idea di spettacolo che a me sinceramente non interessa. Non mi sento nemmeno un regista italiano, ma uno che fa un lavoro, cerca, studia, legge, si documenta e che, ogni tanto, invece di scrivere un saggio che leggerebbero in pochi fa un film che magari verrà visto da qualcuno in più. Questa è la mia filosofia. Inoltre, la mia formazione è quella di pittore. A un certo punto, per «colpa» di Adriano Aprà e Gianni Menon, sono inciampato, ventenne, nei seminari che organizzavano sul cinema underground e da lì è cambiato tutto, scoprendo che l’underground percorreva le stesse strade di noi giovani artisti che facevamo le nostre sperimentazioni. E siccome ero impegnato politicamente e in crisi come pittore, riflettei: se anche diventassi un pittore quotato, qual è la mia funzione sociale? Quella di arredare e abbellire le case borghesi? Se invece di dipingere sulla tela porto la mia pittura sullo schermo io dipingo per tutti. Così è iniziato il mio lavoro nel cinema.

Di fronte a situazioni che in Italia e nel mondo ci fanno rabbrividire – razzismo, guerre, repressioni verso chi manifesta – qual è il suo pensiero?

Il mio pensiero non è cambiato. Purtroppo, le nostre classi dirigenti sono quanto di peggio l’umanità abbia prodotto. Sempre. Questo è il problema. Se si fa un’analisi storica delle classi dirigenti che hanno scritto la storia del mondo abbiamo sempre visto dei mostri. Il problema è la propaganda costruita intorno a questi personaggi che li rappresenta belli, buoni, bravi – ma è una sovrastruttura. A governarci sono i mostri, i costruttori di armi che hanno interesse a fomentare le guerre perché producono affari. Gli americani danno agli israeliani le armi per sparare ai palestinesi e contemporaneamente con i paracadute mandano degli aiuti ai palestinesi perché si ammazzino per mangiare qualcosa. Se questa non è mostruosità, allora non so cosa essa sia.

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