Quando è il presente? è il titolo che Giulio Paolini ha dato alla sua mostra, di nuovo una bellissima mostra, allestita al piano terra del Museo Novecento a Firenze (visitabile fino al 7 settembre), curata da Bettina Della Casa e da Sergio Risaliti, entrambi, da lunga data, partecipi conoscitori della sua opera.

L’interrogativo – mutuato da Rainer Maria Rilke – si addice all’opera di Paolini. Ma, attenzione, potrebbe essere un modo per celare, ancora una volta, la sua presenza qui (per citare il titolo di una sua opera del 1967). Nel tempo e nel luogo dell’esposizione, dove l’autore appare incessantemente, sebbene impegnato nello sforzo eroico e gentile di condividere la propria individualità con quella di una miriade di altri artisti e persino con reiterate figure di uomini qualunque.

La prima sala della mostra fiorentina è rettangolare e ricorda, a chi ha familiarità con il lavoro di Paolini, le proporzioni di Disegno geometrico, l’opera del 1960 che l’autore decretò essere la sua prima. Una tela di centimetri quaranta per sessanta sulla quale è tracciata la squadratura geometrica che serve a preparare il foglio per il disegno. «Un’immagine preesistente, anonima e neutra» la definì il suo autore, e in essa Germano Celant riconobbe la messa al bando dei valori umani, subumani e superumani che avevano segnato la stagione informale, dalla quale, all’inizio degli anni sessanta, i giovani artisti presero le distanze.

Con quell’opera, effettivamente, Paolini mise da parte l’autore – i suoi stati d’animo o la sua contingenza sociale o politica – per sostituirlo con una rappresentazione capace di evocare ogni altra opera d’arte, passata, presente e futura. Coerentemente a questo suo primo assioma e al modus operandi adottato in oltre sessant’anni di biografia artistica, a Firenze egli ospita nella sua mostra numerosi altri autori.

Nell’opera che dà il titolo alla mostra troviamo un quadro dell’Ottocento, forse l’autoritratto di un pittore non identificato, che si raffigurò nel proprio studio nell’atto di dipingere. Un particolare del San Gennaro esce illeso dalla fornace di Jusepe de Ribera appare (in riproduzione fotografica) nell’opera Memento Mori. L’Arianna addormentata, si direbbe quella vaticana, precipita nel lago di Nemi trasformato in tavolozza, infliggendo il suo stesso destino a una tela fuoriuscita dal telaio che strascica a terra come il velo di una sposa: l’opera si intitola La pittura abbandonata, ma non evoca un destino tragico come del resto non lo fu quello di Arianna, che al posto del traditore Teseo sposò Dionisio l’esultante. Un calco di gesso dell’Hermes di Prassitele è parzialmente inquadrato da un’esile cornice e convive con una sfera armillare che contiene i frammenti della sua stessa immagine nell’opera Interno metafisico, il cui titolo rimanda a quello di tanti dipinti dell’amato de Chirico. Figure classiche o neoclassiche e ancora altri autori si incontrano nelle opere in mostra, quasi tutte realizzate in occasione dell’invito fiorentino.

A queste presenze, che non si possono definire citazioni perché sembrano ospiti d’onore, complici di Paolini e non subordinati al suo immaginario, si affiancano quelle di uomini dall’identità indefinita. Per lo più silhouette scure, colte di spalle sullo sfondo di fenomeni che si presume stiano osservando, oppure valets de chambre che, come in altre opere di Paolini, porgono qualcosa al nostro sguardo.
Una mostra densa di presenze quindi, nella quale i partecipanti, che la mera cronologia situerebbe in epoche diverse, si affiancano, si sovrappongono, si sfiorano, si confondono con una, oserei dire festosa, sprezzatura. Come nei tempi felici delle amicizie o degli amori, quando il dono della vita insieme è accolto con nonchalance, non con indifferenza, al contrario con la piena consapevolezza di un bene misterioso, ma inalienabile, di cui godere con incoscienza.

Il bene misterioso e inalienabile, è lo stesso Paolini a suggerirlo, è «la stella fissa dell’arte». L’autore ce ne fa intuire la luce, liberata (ci aiutano le sue stesse parole) da ogni sottomissione, dal dover essere operativa, funzionale o transitiva. L’operazione – guardare con audacia una luce abbagliante, come mangiare mele proibite o scardinare parametri temporali – non poteva essere altrimenti, ha innescato una vertigine, ha ridotto le certezze in schegge, ha atomizzato la visione nel caleidoscopio delle possibili varianti e combinazioni, ha svelato il doppio che inquieta.

Paolini fu tra i primi, se non il primo – a partire da quel lontano 1960 – a porre le basi per un nuovo modo di intendere l’arte, non più appannaggio esclusivo del suo artefice – pensiero che oggi è moneta corrente – ma linguaggio universale perennemente identico a se stesso sebbene passibile di innumerevoli declinazioni. Non pretese con questo di svelarne il mistero. «Che cos’è l’arte?», si chiede per l’ennesima volta nel testo che accompagna la mostra fiorentina, «credo nessuno possa certo rispondere, fissare a lungo quella sfera, quel punto luminoso che non abbiamo capito se è una stella, un pianeta o un satellite: se cioè la sua luce sia radente, naturale o riflessa. Parlo dell’arte senza poterne parlare».

Paolini, però, fu anche tra i primi ad avvertire la necessità che l’autore non rinunciasse al proprio punto di vista. Possiamo considerare questa scelta un atto di umiltà (dichiarare le proprie coordinate sviluppa il senso critico degli interlocutori), ma anche dettata dalla necessità di avvalersi dell’unico strumento a disposizione per dominare il caos. A partire dai primi anni settanta, da quando fluidità e parcellizzazione cominciarono a dilagare, Paolini, con maggiore frequenza, sembrò articolare le sue complesse visioni, multiformi e popolate di presenze, muovendo dalle coordinate del suo Disegno geometrico (le sue proporzioni o le linee rosse che si intersecano la centro della squadratura), dichiarando l’estensione del suo campo visivo, abbracciando la prospettiva (che rivela la traiettoria di un solo sguardo), trasformando la matita – lo strumento dell’artista, il suo strumento – nello gnomone garante del tout se tient (la locuzione coniata da Ferdinand de Saussure per indicare la tenuta universale della langue, e che Paolini ha adottato nei titoli di alcuni suoi lavori).

La presenza di Paolini – della sua prima epifanica intuizione, del suo studio e dei suoi strumenti di lavoro – si rintraccia ovunque anche nella mostra fiorentina, dove si avverte, come spesso nelle opere recenti, un reiterato precipitare delle cose. Quella dell’autore è una presenza discreta, probabilmente non così evidente agli occhi di chi non ha una particolare familiarità con le sue opere. Che cosa è il presente? si erge al centro della sala come al centro si intersecano le linee della squadratura. Entrando vediamo il recto del dipinto ottocentesco, la tela cruda montata sul telaio che Paolini innumerevoli volte ha preferito al verso (si veda l’home page del suo sito curato da Maddalena Disch, il migliore tra quelli dedicati agli artisti contemporanei: www.fondazionepaolini.it). Dell’opera fanno parte anche un cavalletto, una tela, una cornice, un porta disegni e una matita, gli occhiali dalla montatura tonda che da sempre Paolini indossa, un drappo su cui si intravede l’immagine fotografica del suo studio dal quale potrebbero provenire la poltrona stile Luigi Filippo e il tappeto semi arrotolato simile a quello che compare nel dipinto.

Le linee della squadratura appaiono in più di un’opera e sotto diverse spoglie, talvolta sviluppate nella visione tridimensionale dello spazio. Ne L’ultimo sigillo riconosciamo un disegno che ricorre, con varianti, nell’opera di Paolini. Qui, la mano destra tiene la matita segnando il centro dell’orologio fissato al polso della mano sinistra e dalla punta del lapis si genera un vortice (o è la matita a trattenere la deflagrazione). Nel Noli me tangere, l’opera esposta al Museo di San Marco difronte all’omonimo affresco del Beato Angelico, è la figura stessa dell’artista, frammentata e sdoppiata, a ripetere il gesto che suggella l’impossibilità del contatto.

In contemporanea alla mostra di Paolini, il Museo Novecento propone altre due belle mostre, Filippo de Pisis. L’illusione della superficialità, e Luca Vitone. D’après (de Pisis – Paolini). Tra i tre autori – Paolini docet – Sergio Risaliti ha fatto in modo che si imbastisse un dialogo, non mentale, ma fattuale e ricco di sorprese.