“Carissima Paola, quattro di picche, quattro di spade: sono segni irti e battaglieri. E il 4 che potrà voler dire? Lascio a te misteriosa – maga – sibilla – divinatrice delle vie insondabili, devota a Proserpina, il nodo da sciogliere…». Così Graziana Pentich iniziava la letterina in inchiostro verde e augurali tocchi in rosso che accompagnava le carte da gioco commissionatele da Paola Masino. Era il capodanno del ’73 e quella che sarebbe diventata una splendida, atipica collezione d’arte era nel vivo della sua realizzazione.
Lettera e carte da gioco d’artista – le quattro spade azzurre su rosso e le quattro picche verdi su nero – sono in mostra al Museo di Roma insieme alle loro compagne, di differenti mani. Palazzo Braschi offre al pubblico, fino al 30 aprile, un’ampia scelta delle complessive 352 carte ricevute in dono nel 2007 da Alvise Memmo, nipote ed erede della scrittrice: Pittori del Novecento e carte da gioco La collezione di Paola Masino. Visitarla immette in una galleria d’arte contemporanea sui generis, unitaria nel tema, diversissima, sfaccettata, nelle tecniche e nelle poetiche, in un singolare diorama della pittura novecentesca. Una festa per gli occhi e per l’intelletto, tante sono le «maniere», tante e feconde le relazioni intellettuali, le corrispondenze. E tante, anche, le diversità, dai colori en plein air, solari, dell’Asso di denari di Linuccia Saba al gatto arruffato, impertinente e stemmatico nel Jolly di Fabrizio Clerici; dal terso, ascetico Due di coppe di Ottone Rosai al Fante di quadri in camicia a righe bianche e nere, colletto alzato anni settanta, e pantaloni a zampa d’elefante, di Renato Guttuso, cui si deve anche un più contadino e regionale Fante di spade. Difficile che una collezione possa ispirare una simile gioia e sollecitare altrettanto l’arguzia, ma l’idea di Paola Masino era brillante oltre che originale, e la cura della mostra e dell’omonimo catalogo, dovuta a Marinella Mascia Galateria e Patrizia Masini, impeccabile e raffinata.
All’indiscutibile fascino delle carte da gioco Paola Masino era da sempre molto sensibile: giovanissima amava giocare a poker e a pinnacolo; «con Pirandello e con gli amici di Castiglioncello, giocava a scopone» – ricorda Marinella Mascia Galateria – e «più tardi, e più annoiata, giocava anche a canasta». Prima di iniziare la sua «magica collezione» aveva già raccolto autografi di scrittori e musicisti su vere carte da gioco. È all’inizio dei Cinquanta, dopo il ritorno a Roma con Massimo Bontempelli, che Paola Masino avvia coscienziosamente la sua collezione. A sostegno del progetto c’è un’intenzione chiara – fa preparare da un corniciaio di via Margutta i cartoncini telati delle dimensioni di una carta da gioco – e c’è una rara caparbietà: per quasi quarant’anni chiederà ai numerosi amici artisti, o farà chiedere da amici intermediari, di reinterpretare una carta (se non due). Compila uno scrupoloso inventario dei mazzi da comporre; predispone un elenco dei pittori in ordine alfabetico e a ciascuno affianca l’indicazione della carta realizzata; raccoglie i cartoncini, a gruppi di quattro, nelle scatoline bianche delle sigarette Muratti annotandovi mazzo, numero, seme, autore.
L’idea è davvero felicissima: un gioco amicale intavolato con alcuni degli artisti che meglio hanno rappresentato il Novecento. L’esito del progetto è una raccolta di pregio: un mazzo completo di carte francesi, di napoletane e di Tarocchi, Arcani maggiori e minori, cui vanno aggiunti parecchi doppioni, sedici carte fuori misura e un mazzo in bianco e nero incompleto. Le sollecitazioni che queste carte della «maga-sibilla» possono suscitare sono molteplici, e molteplici le aperture: hanno al medesimo tempo un che di fiabesco e di intrigante, di ammiccante e di candido, e nel contempo testimoniano l’inventiva degli autori impegnati da una committenza amicale e tuttavia decisa, la loro individuale rivisitazione di numeri e semi, l’interpretazione di Arcani maggiori e minori. Salvatore Provino dà al Matto un colore cinereo, ferrigno, quasi da automa; Cesare Zavattini, con tecnica non dissimile da quella usata nel 1950 per il Pretino con cappello rosso, sfoca Il Papa che si protende dalla carta a mezzo busto. Ettore Sottsass rende Il Diavolo con un’esplosione policroma attraversata da sottili raggi neri; Gianfilippo Usellini non lascia che un fulmine La Torre, come nelle immagini più vulgate, né che uomini precipitino già babelicamente: i suoi omini si arrampicano lungo una fune…
Enrico Prampolini dipinge un prepotente Tre di spade a campiture nette, nella dominanza dei colori primari. Il pittore che conosceva il «più accanito discendere e risalire dagli strati, dai depositi del consumato, del frusto», come di Alberto Burri scriveva nel 1959 Emilio Villa, traccia con chirurgica combustione un Asso di spade. Francesco Trombadori muove coppie danzanti intorno al gigantesco boccale del suo Asso di Coppe. Jean Fautrier dà il carminio al Sei di cuori e Alfonso Gatto il blu al Sei di fiori. Toti Scialoja disegna le trecce alla nuda Regina di coppe. Giuseppe Capogrossi, nel suo splendido Sette di denari, non rinuncia al «morfema», al «simbolo mnemoniale» – per ricorrere ancora alla lungimiranza di Villa – alla sigla, «(e sì, signum aenigmatis, signum petitionis, signum geminationis), sigla-stigmata: ombra di strumento archetipico, forca gancio uncino forcella scalmo rastrello pettine falcetto punteruolo».
Ciò che appare ricostruito da collezione e mostra non è solo un’incantevole quadreria in scala ridotta, ma un intero ambiente socio-culturale, vivace e colmo di curiosità intellettuale. Nelle teche, infatti, sono esposte anche le lettere che accompagnavano i doni degli artisti, le carte autografate, i disegni, i biglietti amicali. Si tratta di uno spaccato del secolo scorso e di un affondo nella biografia della scrittrice, testimoniata dalle carte Masino conservate nell’Archivio del Novecento della Sapienza esposte nella sala adiacente.
In questa luce, in questa temperie, appare quanto mai adatta l’illustrazione di copertina della recente riedizione di Periferia (Oèdipus, 2016): un Capogrossi del 1935, Giuochi, pressoché coevo alla princeps del romanzo, 1933. Anche in Periferia, cui Anna Maria Ortese riconosceva una bellezza «cruda, sincera, desolata, ma piena di spirito e d’angoscia», si parla di giochi. Ma non di carte: sono giochi di ragazzi, accesi e spietati, emblematici e indispensabili, perché – si legge lì – «giocare è uno stato d’animo, non è un’azione».
Tanto Periferia quanto il racconto lungo Anniversario, apparso per Elliot (pp. 87, euro 9,00), si devono alla curatela di Marinella Mascia Galateria, studiosa, interprete e ambasciatrice di Paola Masino nel mondo. In entrambe le edizioni la curatrice ha firmato amplissimi saggi, ricchi di dettagli e passaggi interpretativi. A lei si deve, peraltro, il ritrovamento del finale originale, che dalla prima uscita di Anniversario,nel ’48, sul «Mercurio» di Alba de Céspedes, era curiosamente sparito in tutte le sillogi postume. È un racconto d’amore filiale e coniugale ambientato nel drammatico ’44 e sospeso tra sofferto realismo e proiezione onirica, forte di una scrittura sostenuta e partecipe, non priva di accensioni liriche, di cui sono spia le metafore, certe anastrofi – «davanti all’usato sentiero», «orribilmente moriva» – e certi chiasmi – «una stanza piena di gente estranea e di squallide ombre». Una prova d’eleganza e d’intimo pathos, come il volto di Paola ritratto da Filippo De Pisis: di una chiarità vibrante sotto il blu della cloche.