Pannonica, baronessa jazz
La copertina del libro di Hannah Rothschild
Alias

Pannonica, baronessa jazz

Ultrasuoni Pagine/Una mecenate fondamentale nella vita di Thelonious Monk e di altri artisti. Tanti i pezzi che le sono stati dedicati. In un libro la sua storia
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

La recente pubblicazione del libro La baronessa, sottotitolo La Rothschild ribelle musa segreta del jazz – terminato dalla nipote Hannah Rothschild nel 2010 dopo anni di ricerche e solo ora tradotto da Alessandro Zabini per Neri Pozza Editore – merita alcune riflessioni storico-musicali.
La biografia riguarda la baronessa Pannonica de Koenigswarter (1913-1988), nata Kathleen Annie Pannonica Rothschild a Londra da una famiglia ebrea britannica di origini tedesche, morta in solitudine a New York, alla fine di un quarantennio «vissuto pericolosamente», frequentando gli ambienti musicali afroamericani che, dal bebop conducono al free jazz. A redigere il testo è dunque la nipote (classe 1962) che della famiglia di banchieri sparsa, risulta lo spirito più vicino alla baronessa, con il precedente The Jazz Baroness (2008) per BBC Radio 4 di argomento più o meno analogo al libro.

IN MODO OSTINATO
Hannah però vuole, ostinatamente, rendere omaggio alla zia che ormai quasi tutte le storie del jazz riconoscono come decisiva per incoraggiare la comunità di hard bopper e soprattutto per aver «salvato la vita» a un artista fino a quel momento ignorato o vilipeso quale Thelonious Monk (1917-1982). La «biografa» cerca di offrire a posteriori una piena rivalutazione dell’operato artistico della baronessa: una donna che, al di là della rigida educazione ricevuta, sposa il barone francese (decaduto) Jules de Koenigswarter, dal quale ha ben cinque figli: durante la seconda guerra mondiale la coppia combatte contro i nazifascisti in Francia e in Nordafrica salvandosi per miracolo in un paio di rocambolesche situazioni, per far ritorno a una vita familiare altoborghese che, per lui, significa una brillante carriera in giro per il mondo, per lei invece una quotidianità domestica ben al di sotto delle proprie aspettative, maturate già nell’anteguerra con l’ascolto dei primi dischi jazz. Infatti la vera storia di Nica, questo il soprannome, trentacinquenne, parte dall’ascolto del 78 giri ’Round Midnight di Monk nella casa di un altro pianista, lo swinger Teddy Wilson, durante una sosta a New York City, che però durerà per i successivi quarant’anni .

La vicenda a questo punto è solo a metà del libro, ma già comincia a infittirsi nelle trame, non solo fra la Baronessa e i jazzmen, ma soprattutto nella ricerca di una verità troppe volte fraintesa dal gossip dell’epoca e dagli storici del jazz che proprio in quegli anni tentano di prendere in seria considerazione l’intero evolversi della musica afroamericana.
Nica a questo punto inizia a dare scandalo nella pur permissiva New York, non ancora però disposta a vedere o tollerare una bella e raffinata signora – ormai prossima al divorzio, ricca, bianca, ebrea – ospitare a casa propria jazzisti neri, flirtare con alcuni di loro, vivacchiare di notte in club fumosi, tra whisky, tabacco, spinelli. Nica, insomma, diventa presto una figura alternativa.

AI CONCERTI
Si presenta ai concerti guidando all’impazzata una Bentley argentea lasciata col motore acceso in sosta vietata; si siede al tavolino, seminascosta, al lato del palco, vestita in modo semplice, con collana di perle, pelliccia sulle spalle e sigaretta fumata utilizzando un lungo bocchino; si defila in questi locali, parlando poco, intrattenendosi con i soli musicisti (da qui la scarsità di interviste da lei rilasciate e di conseguenza la penuria di documentazione); si prodiga a condurli a casa propria per una bistecca, uno scotch e infinite jam session; si diverte nelle suite di alberghi da cui viene quasi regolarmente allontanata per i troppi rumori creati dagli ospiti o anche perché in certi hotel non è gradita la presenza di neri.

È sempre Hannah a svelare come la Baronessa sia ancora più invisa al jet set di pelle chiara soprattutto dopo la morte di Charlie Parker nel di lei soggiorno: il grandissimo bopper viene accolto, perché si trova senza fissa dimora, in preda all’eroina e sotto ricatto degli spacciatori; il rifugio sarà effimero, perché il Bird in poltrona, mentre, sta vedendo un cartoon in tv, muore all’improvviso per cause ancora dubbie (il referto medico parla di polmonite). In altri casi – ad esempio il batterista Art Blakey, con il quale si mormora di una love story, mai ufficializzata e nemmeno smentita da entrambi – Nica è pronta ad aiutare i jazzisti in difficoltà, prestando denaro, senza mai pretenderne la restituzione.

Ma il sostegno maggiore è quello psicologico fornito a Thelonious Monk, il quale vive con lei per lunghi periodi, benché innamoratissimo della moglie Nellie Smith. Pannonica segue passo dopo passo l’iter cronologico che fa di Monk, detto Sphere, un protagonista al centro di una scena in ebollizione, soprattutto tra la fine degli anni ’50 e la metà dei ’60, quando la musica transita dal cool al post free e quando il pianista – ispiratore di tutto il jazz contemporaneo – dopo alcuni splendidi 33 giri per la Riverside (Brilliant Corners, Monk’s Music, Misterioso, Alone in San Francisco) tiene fede al contratto stipulato con la prestigiosa Columbia, licenziando forse i suoi album migliori, come Monk’s Dream, Solo Monk, Straight, No Chaser o Underground, pensati, suonati, confezionati sotto il segno di una donna che, di rado, frequenta gli studi di registrazione, mostrandosi quindi discreta e al contempo autorevole nel lasciare a Thelonious la massima libertà espressiva, così come quella di vagare per casa e lavorare indisturbato al pianoforte gran coda nel salotto.

Nica viene da Monk contraccambiata con la composizione di ben quattro brani a lei ispirati o dedicati: Pannonica, Bolivar Blues, Coming on the Hudson, Little Butterfly (quest’ultima cantata pure da Jon Hendricks in stile vocalese); altri sette pianisti, ammiratori di Sphere, ne seguono l’esempio e nascono Blues for Nica di Kenny Drew, Nica di Sonny Clark, Nica Steps Out di Freddie Redd, Thelonica di Tommy Flanagan, Inca e Cats in My Belfry del confidente Barry Harris, Theme for Nica dell’inglese Eddie Thompson e soprattutto Nica’s Dream dell’amico Horace Silver, ripresa anni dopo dalla cantante Dee Dee Bridgewater che vi aggiunge un testo significativo; ma gli omaggi si estendono a quasi tutto il mondo dell’hard bop, coinvolgendo ogni strumento: i sassofoni in Poor Butterfly di Sonny Rollins e in Nica’s Tempo di Gigi Gryce, le trombe in Tonica di Kenny Dorham e Pannonica di Donald Byrd, il contrabbasso ancora in Panonica di Doug Watkins e la batteria per Weehawken Mad Pad di Art Blakey.

E ancora Nica’s Day (firmata da Wayne Horvitz) a chiudere un album epocale nel 1992, in seno alla neoavanguardia, come First Program in Standard Time della New York Composers Orchestra con pezzi di Anthony Braxton, Robin Holcomb, Lenny Pickett, Bobby Previte, Elliot Sharp.

L’INCONTRO
Ascoltando tutti questi lavori vengono in mente le parole di Hannah, dopo il decisivo (per il libro) incontro con la zia Baronessa: «Non dimenticherò mai la sua voce. Era logorata dal whisky, dalle sigarette e dalle notti bianche come una costa dalle onde del mare: una voce che era in parte rombo e in parte brontolio, spesso punteggiate da ansimanti scoppi di risa». Una voce – si potrebbe aggiungere – che era l’equivalente simbolico, alla tastiera, delle stupefacenti imprevedibili note al pianoforte di un immenso Thelonious Monk.

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