Il fatto è che le cose più consequenziali non sono necessariamente quelle più drammatiche. Prendiamo per esempio la crisi del cambiamento climatico. Questo fenomeno causato dagli essere umani rischia di peggiorare la qualità della vita di tutti gli abitanti della terra, distruggere intere comunità, uccidere delle persone in massa, eliminare intere specie animali e secondo le previsioni più pessimistiche rappresenta un pericolo anche per la nostra sopravvivenza. E che cosa abbiamo ricevuto dal cinema riguardo a questo argomento, il più importante della nostra epoca se non di tutta la storia umana? Un documentario narrato da Leonardo diCaprio e un film catastrofico di Roland Emmerich. Ripeto. Roland Emmerich. Quando la storia – se ancora esisterà – ci chiederà chi ha fornito una risposta alla crisi esistenziale più pericolosa di tutti tempi la replica sarà: Roland Emmerich. È diventata quasi una verità lapalissiana: ci è più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo, ma ancor più difficile è filmarla. I motivi sono simili alle mancanze del cinema nei confronti della crisi del cambiamento climatico. La complessità del sistema non si può ritrarre; i milioni di motivi sono troppi; i miliardi sono somme che non si possono immaginare, figuriamoci sullo schermo. C’è il realismo sociale di Ken Loach e di tanti altri che danno una voce alle vittime ma queste sono – per forza – storie marginali, lontanissime dai centri di potere attuale. Dopo la crisi del 2008 ci sono stati un paio di film. Oliver Stone con il suo inenarrabile talento nello sbagliare in quasi tutti gli argomenti ha pubblicato «Wall Street il denaro non dorme »nel 2010, mostrando una certa simpatia per il vecchio bancario buono Frank Langella contro il cattivo Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas. Nel 2011, Margin Call ci ha portato dentro la sala del consiglio di un grande ente finanziario sull’orlo del crollo. «Wolf of Wall Street» di Martin Scorsese e «La grande scommessa» di Adam McKay hanno usato le figure dei vincitori anticonformisti che hanno guadagnato la miseria che avevano causato. Come i vecchi film di gangster la morale testuale è quasi completamente sovvertita dal sottotesto: i responsabili assomigliano a Leonardo diCaprio e sono sposati con Margot Robbie. Il nuovo film di Steven Soderbergh – il suo quinto dopo il suo ritiro – «Panama Papers» segue questi ultimi in tono e stile. Utilizza Gary Oldman e Antonio Banderas come coro di esposizione nei panni dei partner dello studio legale di Mossack Fonseca che ha sfruttato il sistema per fare miliardi sulla pelle di gente ordinaria come Meryl Streep. E qui sorge il problema. Meryl non è più un’attrice che scompare nei suoi ruoli. Ed il film stesso confessa che alcuni produttori e almeno uno degli scrittori hanno beneficiato di uno dei trucchi svelati. Hollywood ha difficoltà nel criticare il sistema perché Hollywood fa parte del sistema.