Palmyra, le spoglie di al-As‘ad e gli idoli del deserto
Archeologia mediorientale Khaled al-As‘ad, l’archeologo giustiziato dall’Isis, dedicò l’intera esistenza al sito siriano: ora Viella pubblica, arricchita, la sua «Guida di Palmyra»
Archeologia mediorientale Khaled al-As‘ad, l’archeologo giustiziato dall’Isis, dedicò l’intera esistenza al sito siriano: ora Viella pubblica, arricchita, la sua «Guida di Palmyra»
Guida di Palmyra, a cura di Marco Di Branco e Maria Teresa Grassi (Viella, pp. 112, e 25,00) riporta l’attenzione sul sito archeologico siriano vittima, dall’agosto del 2015 al gennaio del 2017, di eclatanti distruzioni da parte dello Stato Islamico. Le magnificenti rovine della città carovaniera, dichiarate patrimonio dell’umanità nel 1980, erano tuttavia già state compromesse a partire dal 2012, quando le truppe di Bashar al-Assad – eludendo le convenzioni dell’Aja (1954) e di Parigi (1972) – non le avevano risparmiate da bombardamenti e saccheggi. Il libro è un omaggio a Khaled al-As‘ad, definito nel sottotitolo «martire del patrimonio culturale», della cui guida archeologica – scritta con l’allora responsabile degli scavi permanenti di Palmyra Adnan Bounni e pubblicata per la prima volta a Damasco nel ’76 – si propone una nuova traduzione dall’arabo, corredata dalle foto dell’archivio Pal.M.A.I.S. dell’Università di Milano. Dal 1963 al 2003 direttore delle antichità e del museo di Palmyra, al-As‘ad viene brutalmente ucciso dai miliziani dell’Isis – i quali lo avevano in precedenza rapito e probabilmente torturato assieme al figlio Walid, subentratogli nella gestione del sito – il 18 agosto del 2015 a Tadmor. L’assassinio, seguito a poca distanza dall’esplosione del tempio di Baalshamin, delle principali torri funerarie e dell’imponente tempio di Bel a Palmyra, suscita sconcerto e commozione nella comunità internazionale. Amplificata dalla macabra esposizione del corpo, decapitato e appeso a un palo della luce con la testa disposta fra i piedi, la morte dell’archeologo innesca sui media un processo di «eroizzazione».
Il presunto tesoro d’oro
Franco Bernabè, che firma la prefazione al volume, riferisce la versione romanzata dei fatti secondo cui l’ex conservatore si sarebbe sacrificato pur di non rivelare il luogo dove erano stati nascosti i reperti evacuati dal museo di Palmyra, mentre Maria Teresa Grassi menziona un presunto tesoro d’oro inseguito dai soldati di Abu Bakr al-Baghdadi. In realtà, sebbene quest’ultimo particolare sia stato comunicato alla stampa da Maamoun Abdulkarim – all’epoca al vertice delle antichità e dei musei siriani –, l’esecuzione di al-As‘ad va piuttosto inquadrata nel clima di terrore che caratterizza l’avanzata dell’esercito del Califfo nero. Un cartello collocato dagli stessi jihadisti sulle spoglie dell’ottuagenario, esplicita inoltre le ragioni della condanna: l’«apostata», il sostenitore del regime dei Nusayri ovvero degli Alawiti è accusato – fra le altre cose – di aver rappresentato la Siria in conferenze blasfeme e di essere stato il direttore degli antichi idoli di Palmyra. Appare insomma evidente che al-As‘ad, membro di un’agiata famiglia sunnita di origini beduine e apprezzato studioso sia in patria che all’estero, abbia pagato con la vita la vicinanza «forzata» al partito Ba‘th nonché l’impegno profuso durante mezzo secolo per la conoscenza, la tutela e la valorizzazione di Palmyra, uno dei siti archeologici più emblematici del Mediterraneo. Michel Al-Maqdissi scrive nel numero 92 (2015) della rivista «Syria» che al-As‘ad aveva una visione profondamente umanista dell’archeologia, grazie alla quale «è rimasto in piedi» davanti ai disastri che il patrimonio siriano attraversa fin dallo scoppio del conflitto. Rifiutando di allontanarsi da Palmyra, egli ha intrapreso una strenua difesa delle vestigia provando altresì a condividere la sofferenza di tutti gli archeologi del paese, molti dei quali – militanti sia nelle file dei lealisti che degli oppositori – sono periti nel tentativo di proteggere i siti da depredazioni e scavi clandestini. In questo tragico contesto va ricordato anche l’attivista digitale Bassel Khartabil, giustiziato nel 2015 nel campo di al-Qaboun a Damasco prima che portasse a compimento il suo New Palmyra Project incentrato sulle ricostruzioni in 3d dei monumenti.
La guida redatta da Bounni e al-As‘ad è preceduta da un profilo biobibliografico di quest’ultimo (a cura di M. T. Grassi) che, per quanto sintetico, mostra l’incessante lavoro dell’archeologo nato nel 1934 a Tadmor, a pochi passi dal tempio di Bel. Khaled, il predestinato, compie gli studi in Storia all’Università di Damasco per poi consacrare la sua esistenza all’esplorazione e al restauro della Sposa del deserto. Di al-As‘ad vengono messe in rilievo le scoperte (fra le più importanti quella del suq omayyade lungo il tratto occidentale della grande via colonnata), le vaste competenze scientifiche – la sua attività ha valicato i confini dell’abitato greco-romano di Palmyra, comprendendo insediamenti preistorici e castelli di età omayyade ubicati intorno al territorio dell’oasi – e il sostegno alle missioni archeologiche straniere, per le quali costituiva un punto di riferimento imprescindibile. Grassi dedica anche una trentina di pagine alla storia di Palmyra, argomento trattato più compiutamente in un saggio uscito per le Edizioni Terra Santa nel 2017.
Templi, torri funerarie e un arco
Palmyra. Storia, monumenti e museo è invece il titolo della guida vera e propria redatta da al-As‘ad e Bounni che ha accompagnato fino al 2011 le migliaia di visitatori del sito Unesco, finito due anni dopo nella lista delle aree archeologiche in pericolo e ora in fase di ricostruzione con un progetto dalle innegabili connotazioni politiche che vede coinvolti i russi, non certo noti nell’ambito del restauro e responsabili dell’installazione, nel 2016, di una base militare sulle rovine della necropoli Nord. Rivolto non soltanto a un pubblico di esperti, il testo dei due specialisti di Palmyra trasmette con rigore la ricchezza architettonica e artistica della città carovaniera, crocevia di popoli e merci pregiate. Le schede dei monumenti sono minuziose e forniscono dettagli anche riguardo a scavi e restauri, senza trascurare l’epigrafia palmirena, di cui al-As‘ad era un fine conoscitore. Padroneggiava infatti l’aramaico, lingua nella quale erano composte le iscrizioni di Palmyra, quasi sempre affiancate dalla trasposizione in greco.
Tra i personaggi storici di cui si offre un ritratto spicca Zenobia, alla quale al-As‘ad riserverà una monografia nel 2006. Moglie dell’arabo Odainath (Odenato), che si era attribuito il titolo orientale di «re dei re» poi ereditato dalla consorte, Zenobia è entrata nella leggenda come l’affascinante, ambiziosa e irriducibile «regina» ribellatasi all’imperatore Aureliano. Ripercorrendo idealmente Palmyra attraverso l’orgoglioso sguardo dei due archeologi, s’incespica nel dolore per l’inesorabile perdita degli edifici che dal I al III secolo d.C. avevano dato forma al più bel miraggio del deserto siriano. I monumenti oggi scomparsi – oltre a due templi, alle torri funerarie e all’arco a tre fornici, nel 2017 sono stati mutilati il teatro e il Tetrapylon – rivivono nel racconto di chi aveva contribuito a preservarli per i posteri. Manca, invece, nella traduzione di Di Branco, il capitolo relativo al museo, inaugurato nel 1961 e anch’esso devastato dai combattenti dell’Isis. Tale scelta, non motivata dai curatori, rende incompleta un’opera che – considerata anche la rarità, sul mercato librario, dell’edizione originale e di quelle successive – rappresenta una preziosa testimonianza per continuare ad alimentare l’immaginario spalancatosi in Europa dopo la diffusione, nel 1753, di Ruins of Palmyra, otherwise Tedmor in the desart, il fortunato resoconto di viaggio di Robert Wood e James Dawkins. Il libro si chiude con una breve ma interessante appendice dello stesso Di Branco, che mette in guardia sulle distorsioni inerenti al rapporto dell’Islam con la sfera delle immagini. Le performance distruttive di opere d’arte (talvolta false) a scopo propagandistico per mano dei fondamentalisti sono infatti servite a coprire il commercio illegale di reperti, un business redditizio per lo Stato Islamico, che ha invece impoverito il patrimonio memoriale dell’umanità.
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