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Palestina sotto sequestro

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Territori Occupati Proseguono le ricerche dei tre israeliani rapiti e la campagna di arresti e raid che stringe in una morsa la Cisgiordania. Tra gli ultimi fermati anche Samer Issawi, protagonista un anno fa di uno sciopero della fame lungo 266 giorni contro la "detenzione amministrativa", il carcere senza processo

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 25 giugno 2014
Michele GiorgioGERUSALEMME

Laila Issawi ha capito subito che quei soldati, quelle camionette, apparse all’improvviso davanti casa, erano lì per suo figlio Samer. D’impulso si è messa al computer, per lanciare l’allarme. Ma nel giro di qualche minuto è arrivata la conferma. Lunedì sera Samer Issawi, protagonista del più lungo sciopero della fame in un carcere israeliano, è stato arrestato a casa del fratello Mehdat, a Isawiyya, un sobborgo di Gerusalemme. Era stato liberato lo scorso dicembre sulla base dell’accordo raggiunto qualche mese prima con Israele che aveva messo fine a 266 giorni di digiuno di protesta contro la sua detenzione. Qualche mese fa è stata arrestata anche la sorella Shirin. «Samer sapeva che gli israeliani non avrebbero rispettato l’accordo e che presto o tardi sarebbe tornato in prigione», raccontava ieri il padre Tareq.

 

La notizia dell’arresto di Samer Issawi ha fatto il giro della rete. La battaglia contro la “detenzione amministrativa” – senza prove e senza processo – portata avanti prima da Issawi e ora da centinaia di prigionieri politici in sciopero della fame dal 24 aprile, è seguita in ogni angolo di mondo. Grazie ai social perchè i media tradizionali, in buona parte, la ignorano nonostante la “misura cautelare” attuata da Israele sia contraria alle leggi internazionali e sia stata condannata più volte dalle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Come ignorano la portata e le conseguenze dell’operazione militare “Brother’s keeper” lanciata da Israele dopo la scomparsa il 12 giugno nella Cisgiordania meridionale di tre ragazzi ebrei, probabilmente rapiti dal movimento islamico Hamas. Ufficialmente “Brother’s keeper” è una campagna per la ricerca dei tre adolescenti – Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, tra i 16 e i 19 anni, – con l’impiego di migliaia di soldati. Sino ad oggi però si è manifestata soprattutto come una clava per colpire Hamas e per infliggere una punizione alla popolazione palestinese che, non è un mistero, vede nel rapimento un mezzo per ottenere la liberazione dei detenuti politici chiusi nelle carceri israeliane. I palestinesi arrestati in 12 giorni sono almeno 471 (11 sono deputati del Consiglio legislativo, tra i quali lo speaker Aziz Dweik). Israele ne conferma 354. In questi giorni l’esercito israeliano ha anche effettuato perquisizioni – veri e propri raid distruttivi, denunciano i palestinesi – in 1800 edifici e abitazioni civili, istituzioni pubbliche, scuole, università e in sedi di mezzi d’informazione. In città e campi profughi.

 

E’ subito cresciuto anche il numero dei detenuti “amministrativi”. Addamir, l’associazione che sostiene i prigionieri politici (in totale oltre 5 mila), ha documentato 104 nuovi ordini di questo tipo di detenzione. E quando i palestinesi hanno provato ad opporsi alle incursioni, i soldati israeliani non hanno esitato a sparare – “per legittima difesa”, spiega un portavoce dell’Esercito – facendo almeno cinque morti, tra i quali un 15enne di Dura (Hebron), Mahmud Dudin, colpito in pieno petto da un proiettile. Qualche anno in meno di Dudin aveva Ali al-Awour, un bambino ucciso a metà giugno, a Gaza, da un missile sganciato da un drone israeliano contro un presunto miliziano jihadista. E gli stessi anni o poco più avevano gli altri quattro ragazzi palestinesi uccisi dalle forze militari dall’inizio del 2014: Adnan Abu Khater, 16 anni; Yousef al-Shawamrah, 14 anni; Muhammad Salameh, 16 anni; Nadim Nawarah, 17 anni.

 

Chiedere che i tre ragazzi israeliani facciano al più presto ritorno a casa sani e salvi è doveroso. Allo stesso tempo è inaccettabile l’atteggiamento di buona parte del mondo politico ed istituzionale in Occidente che rimane in silenzio quando l’occupazione militare israeliana uccide ragazzi palestinesi, spesso bambini, e ne incarcera tanti nelle sue prigioni. Non esistono esseri umani di serie A e serie B.

 

Oggi molto più di qualche anno fa si tende ad ignorare in Occidente la realtà quotidiana dei palestinesi e a considerare le incursioni militari israeliane quasi come normali “operazioni di polizia” contro criminali comuni e non come attività di una forza di occupazione. Questi, ad esempio, sono i giorni in cui i decine di migliaia di ragazzi della Cisgiordania sono impegnati negli esami di maturità e all’università. E i raid militari israeliani hanno un impatto devastante su questi giovani, come raccontano Aisha Shalash e Hanin Dweib, due studentesse dell’università di Bir Zeit. «La notte del 18-19 giugno – hanno scritto le due giovani in un messaggio postato in rete – mentre eravamo impegnate negli esami finali di laurea, anche il nostro campus universitario è stato perquisito…Abbiamo visto le immagini dell’esercito israeliano che riempiva le strade del campus, sfasciando porte di acciaio e di legno…I soldati hanno trovato solo le bandiere, i manifesti e gli accessori utilizzati nelle elezioni studentesche, li hanno confiscati e se ne sono andati..(dopo) abbiamo continuato a chiederci: perché stanno facendo questo? Perché sconvolgono il nostro studio e i nostri esami? Non siamo forse umani? Non abbiamo il diritto all’istruzione? A un futuro di speranza? A una vita in libertà di giustizia e pace? Perché il mondo non ascolta mai noi palestinesi?»

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