Visioni

«Palazzo di Giustizia», un giorno in tribunale nel tempo dell’attesa

«Palazzo di Giustizia», un giorno in tribunale nel tempo dell’attesa

Al cinema Chiara Bellosi racconta un processo dentro e fuori dall’aula tra incontri imprevisti e esistenze sospese

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 ottobre 2020

Racconta Chiara Bellosi che prima di girare il suo film ha passato molto tempo nel Tribunale di Milano osservando quanto accadeva in quel luogo «spersonalizzante e insieme più carico di umano che esista». E da quei molti giorni, con le loro epifanie, è nato Palazzo di Giustizia, il suo primo lungometraggio, da oggi in sala dopo la presentazione alla scorsa Berlinale – e lo stop distributivo imposto dal lockdown. Vedetelo, cercatelo perché è un bell’esordio che rivela il talento di una cineasta il cui sguardo parte dal cinema, dalla messinscena, dagli spazi e dall’intensità emozionale che li ridisegna trasformando gli anonimi corridoi del tribunale, le sue aule in cui si giudica decidendo non solo per gli imputati ma per tutti coloro che gli sono vicini, in una sorta di movimento collettivo in cui gli accadimenti, anche i più piccoli, si fanno storia, rimandano a un fuori campo o forse anche a un desiderio che li porta lontani di lì.

È QUESTIONE di tempi e soprattutto di punto di vista: dove mettersi, da che parte stare, in che modo entrare nelle singole inquadrature, andare vicino ai protagonisti, alle loro paure, alle loro contraddizioni. Vicino nei primi piani di occhi che divagano per posarsi su qualcos’altro, mani che torturano una sigaretta o il bordo di una maglia. Parole che insistono su cose ordinarie quasi a aggrapparsi alle abitudini di ogni giorni che sono però interrotte. La macchina da presa di Bellosi sa dove posarsi, come muoversi, in che modo articolare quella distanza «ravvicinata» nella quale il senso dell’osservazione da cui è partita si fa racconto, gli incontri diventano personaggi, l’accumulo di esperienza narrazione.

SIAMO, dunque, nel Palazzo di Giustizia – come dice il titolo – in un’aula Magia (Giovanni Anzaldo) è imputato per la rapina a un benzinaio, Viale (Nicola Rignanese), che ha sparato uccidendo l’altro rapinatore. Fuori a aspettare la sentenza ci sono Angelina (Daphne Scoccia), la compagna di Magia, giovanissima come lui, e la loro bambina, Luce (Bianca Leonardi), ma anche la figlia di Viale, adolescente (Sarah Short). Appena può Angelina scivola dentro, abbraccia il ragazzo, gli sta vicino prima di essere messa alla porta. Intanto la piccola Luce divaga, si avventura nei corridoi, segue il volo di un passerotto, fa amicizia con un ragazzo, un operaio che sta finendo il suo lavoro, infilandosi nella traiettoria di attrazione tra lui e la figlia del benzinaio.

Perché la regista – che ha scritto anche la sceneggiatura – rimane soprattutto in quel corridoio, «dentro» – nell’aula appunto – ci sono le testimonianze, i discorsi, degli avvocati, il giudice, i giurati – i fatti e il loro contrario di cui costruisce l’andamento con precisione. Ma «fuori», oltre la porta, c’è l’attesa, quello che significa rimanere ore, forse giorni sospesi, aspettando un «verdetto», qualcosa che cambierà il corso della vita di lì in avanti. E su queste linee dell’attesa si pone in ascolto, crea una zona in cui a dispetto della diffidenza che li separa coloro che attendono – pure se «nemici» – finiscono in qualche strano modo per incontrarsi. Guidati forse dalla bimba che in fondo non sa e non si fa certo scrupolo di chiedere a quella ragazza che le potrebbe essere sorella maggiore una gomma da masticare. O di osservare il suo panino più buono delle merendine arrangiate che ha lei.

È COME se lì, in quella strana temporalità di inquietudine qualcuno riesca a dimenticare, a immergersi per un attimo nella vita, lasciando aperta persino la possibilità di un incontro del cuore o di una favola inattesa. Sono i figli, è su di loro che si concentra la regista, sono loro che abitano – e animano – questo «fuori campo» in cui la regista si mette in gioco con le sue immagini, con sensibilità allenata – anche dal passato di documentarista – con una dolcezza fisica – che si riverbera sugli attori tutti giusti nel ruolo a cominciare proprio dalla bimba.
E insieme riesce a affrontare un genere – il film giudiziario dall’interno reinventandone la forma su quella soglia, sul confine tra un dentro e un fuori che non avevamo mai visto.

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