Taranto, 1997. Caterino Lamanna si muove senza una meta precisa, tra una vecchia masseria, l’ILVA, gli operai in lotta, i padroni che non si accontentano dei profitti ma pretendono di esercitare il controllo assoluto consapevoli dell’impunità. Accanto a lui, una giovane donna che non comprende quale sia il senso autentico della loro relazione. Tra i capi, invece, il meschino Giancarlo Basile si aggira come un boss che può umiliare e offendere, creare e distruggere, spostare senza diritto tecnici specializzati in acciaieria e promuovere operai a caposquadra con il solo fine di trasformarli in spie. Il potere ha bisogno di infiltrati per rivelare l’identità dei ribelli e per anticiparne eventuali mosse sovversive.
A ricevere quell’apparente gratificazione è proprio Caterino che ha il compito di sorvegliare i suoi colleghi e amici. Quelli con i quali dovrebbe essere sodale e che invece tradisce. Li pedina, li ascolta per poi riferire a Basile le trame di un piccolo gruppo abbandonato dalle forze politiche, dai sindacati, dalla stampa, dall’opinione pubblica. È tale la dismisura delle forze in campo che a sembrare folli sono proprio i freddi e razionali vertici dell’industria, e non chi ingiustizia dopo ingiustizia avrebbe motivo di agire sconsideratamente.Tra i capi, invece, il meschino Giancarlo Basile si aggira come un boss che può umiliare e offendere, creare e distruggere,
A raccontare questa storia di operai e padroni, di rivendicazioni e soprusi, di dignità e umiliazioni, è Michele Riondino che con Palazzina Laf firma la sua opera prima da regista. Interprete principale (Caterino) accanto a Elio Germano (Basile), e autore della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci, l’attore pugliese si è documentato attraverso interviste a ex lavoratori e leggendo le carte processuali che hanno portato ad alcune condanne e risarcimenti per le persone coinvolte in uno dei tanti episodi che dimostrano cosa significhi lavorare in Italia.

UN FILM che racconta in modo diretto l’assenza di una rete fuori dalla fabbrica. Che pone, senza andare mai sopra le righe, la questione del lavoro dentro una società che dimentica la vita degli altri, di chi in fabbrica muore per mancanza di sicurezza o è punito per essersi opposto, per aver cercato una via migliore per tutti.
La Palazzina Laf del titolo è un edificio fatiscente, invisibile, controllato da guardie asservite, dove operai e tecnici sono reclusi fino a quando non si piegheranno alla volontà dei padroni. Chi non accetta la cosiddetta ristrutturazione, la riconversione, è condannato all’esilio, al confino dentro l’ILVA, nella Palazzina Laf, appunto. Nei corridoi e nelle stanze solo donne e uomini da ridurre a corpi senza intelletto, ridotti a giocare con una palla di carta.

SOLO Caterino non si rende conto della situazione. Pensa che quel luogo sia un paradiso dove è stata abolita la fatica. Sarà solo questione di tempo. Anche lui, farà le sue esperienze, si avvicinerà all’orrore di esistenze condannate al silenzio e all’inazione. E così dopo Paola Cortellesi, anche Riondino sceglie la via della regia per incitare a osservare criticamente un presente radicato in un orribile passato.