Tre settimane di corsa, concentrate nelle festività fra metà dicembre e l’Epifania; tre settimane di attività massacrante, sotto i vent’anni, che invece di stancarci ci elettrizzavano. La spinta ce la dava la modalità di quel lavoro, perché di lavoro si trattava, che proseguì per tre quattro anni. Si usciva in coppia, almeno uno patentato con disponibilità di auto: più veloci ci muovevamo più guadagnavamo.

La sigla Sip significava telefonia. In città la sezione dell’Unione italiana ciechi deteneva l’appalto delle guide telefoniche, con allegate le pagine gialle, da recapitare al domicilio degli abbonati nell’anno che finiva e in quello che iniziava. Per ogni guida consegnata un fisso. Al deposito, di buon mattino, si caricava l’auto e si partiva per il settore assegnatoci. Chi impiegava meno tempo a smaltire il carico riceveva il giorno dopo più guide da consegnare e via così, di corsa.

Antesignani dei riders: invece di cibo si trasportava cartaceo. Un’opportunità per imparare la toponomastica della città. Alla persona che apriva la porta della propria casa si richiedeva di apporre la firma su una scheda per avvenuta consegna della guida e ritiro della vecchia: spesso lacera, scarabocchiata, unta, a volte mai aperta e restituita intonsa dopo un anno di riposo nel cassetto.

Disgraziatamente la guida veniva usata pure da portacarte. Fra le sue pagine ci finiva di tutto: bollette, lettere, fotografie, schedine del Totocalcio, ricevute di riffe, figurine di santi e di giocatori, ricette mediche, biglietti d’autobus e biglietti da mille o da cinquecento lire.

Materiale che si spargeva sul pavimento sollecitando l’abbonato a sventolare il librone e a non farci perdere tempo. Un signore gentile in un condominio, che ci aveva offerto con insistenza il gingerino, afferrò il dorso delle pagine gialle e si mise ad agitarle. La porta d’ingresso aperta, noi già al di là della soglia e una pagellina della moglie defunta che svolazzando atterrò davanti ai nostri piedi. Il vedovo lesto si chinò per raccoglierla. Sennonché una folata d’aria fece sbattere la porta e lui, con noi, sul pianerottolo fuori di casa. «La pentola, la pentola a pressione sopra il gas», pronunciò con voce strozzata mentre si prolungava a cercare nelle tasche l’improbabile chiave della serratura.

Suonammo i campanelli degli altri due appartamenti del pianerottolo, uscirono i coinquilini e tutti a temere il peggio: che scoppiasse la pentola. Si creò una situazione confusa, concitata. Ne approfittammo per toglierci dall’imbarazzo, e dall’impiccio, scendendo le scale del quinto piano a due gradini per volta. In strada c’infilammo in macchina avviandola, intanto dal senso di marcia opposto le sirene preannunciavano i pompieri. Che si materializzarono con l’autoscala estensibile e le asce già imbracciate. Che casino!