Paganelli, racconti speculativi con sottofondo fantastico
La figura di Gianluigi Paganelli era balzata all’attenzione della cronaca letteraria nel 2023 con la pubblicazione, da parte delle Edizioni Via del Vento, del volumetto postumo Il levarsi della luna e altre prose inedite, curato da Alessandro Ceni, recensito favorevolmente nelle più importanti pagine culturali. Ora Massimo Baldi e Claudio Frosini, suo allievo ed erede letterario, curano per le Edizioni Effigie Un misterioso disordine (pp. 216, € 24,00), raccolta contenente trentacinque racconti inediti, tesi a mettere maggiormente a fuoco il profilo di questo scrittore schivo e appartato che in vita si limitò a pubblicare due soli titoli, a distanza di un decennio, in maniera peraltro semiclandestina: il poemetto Fra le torri del tempo, arricchito da un’introduzione di Mario Luzi (Edizioni del Battello Ebbro, 1992) e la tragedia Tommaso Becket (Brigata del Leoncino, 2002).
Nato a Pistoia nel 1935 e ivi scomparso nel 2018, Paganelli era figlio unico di un funzionario delle imposte e di una donna di origini veneziane, entrambi appassionati di recitazione. Si diplomò presso il locale Liceo Classico sotto il magistero del latinista Raffaello Melani, dimostrando estrema facilità di apprendimento e una dialettica non comune. Il suo caso suscitò l’interesse di Ardengo Soffici che elargì una discreta somma in denaro destinata alle spese universitarie, dilapidata dall’interessato nell’arco di poche ore a favore di sodali e conoscenti. In seguito collaborò a «Belfagor» e altre riviste, stringendo amicizia con intellettuali del calibro di Piero Bigongiari, Mario Luzi, Giorgio La Pira, Guido Ceronetti, Luigi Russo, Giuseppe Ungaretti, ma anche con poeti più giovani quali Milo De Angelis e il concittadino Roberto Carifi. Si dedicò sporadicamente all’insegnamento e alla traduzione di testi classici (Orazio, Pindaro), diventando una figura di riferimento culturale della sua città, spartita tra i fregi in terracotta di Santi Buglioni presso lo Spedale del Ceppo e i cavalli bronzei di Marino Marini. Tutta la sua multiforme produzione, annoverante poesie, racconti e saggi critici, risulta inedita, avendo lo scrittore teorizzato la priorità dello stile sui contenuti: «Se vince la forma, il racconto vince almeno quanto avvince».
Un misterioso disordine rivela il talento innato di Paganelli per il racconto di taglio speculativo, intrecciato con un sottofondo fantastico che a tratti richiama le atmosfere create da Poe, Bierce e Lovecraft. Attraverso un linguaggio aulico e prezioso, ricco di vocaboli desueti, queste narrazioni si pongono in quella sorta di Finisterre in cui è difficile districare sonno e veglia, incubo diurno e notturno. Esse costituiscono una cartina di tornasole del suo usus scribendi, abbracciando varie tematiche, configurate all’insegna del paradosso e del divertissement estroso ed eccentrico, lungo una linea anticanonica includente i nomi di «eretici» novecenteschi come Manganelli, Savinio, Delfini, Wilcock, ma soprattutto Landolfi che, mediante una serie di stralunati apologhi, fa disquisire i propri personaggi intorno ai minimi e «massimi sistemi».
Si passa così dal racconto iniziale, in cui si descrive la morte assurda di un lettore delle Elegie duinesi di Rilke verificatasi a causa del volo inopportuno di una mosca, alla passeggiata lungo le mura urbane di un certo René Paneghetti che arriva a misurarsi con un’inverosimile dimensione ultraterrena; dall’incontro kafkiano tra due messaggeri, i quali, nel luogo designato, rinunciano a scambiarsi i rispettivi plichi, alla storia di un uomo, reputato defunto, che si risveglia all’interno di un carro facendo morire di spavento il vetturino e prendendo giocoforza il suo posto. Non mancano esiti metalinguistici, con descrizioni particolareggiate dello scollamento riportato dai nomi rispetto alle cose («Un piccolo apologo in un giorno di pioggia») o, sulla scia del retaggio surrealista, l’approfondimento dell’aspetto onirico («La nuvola chiusa», «L’intervento», «Sogno»), con risvolti che sembrano rifarsi a soluzioni figurative degne di Magritte o Delvaux.
L’elemento autobiografico è sempre presente, nonostante venga spesso deformato in chiave allucinatoria, accompagnandosi al tema assillante della morte, come dichiarato dall’autore in premessa: «Tutto il libro è pieno di morte, è pingue di morte». Si veda un racconto esemplare come «La tazza», dove si delinea in modo dissacrante, senza mai scadere in formule triviali, il profilo del Grande Evacuatore alias Pierre Cachet, intento ad annotare scrupolosamente, tramite la stesura di un «diario addominale», l’evoluzione delle proprie funzioni fisiologiche, reputate in aperta contrapposizione con l’operato di politici ed Ermeneuti. Non c’è tuttavia alcun tipo di autoreferenzialità nei racconti di Paganelli, ma una sofferta, autentica pulsione a investigare i lati reconditi dell’esistenza attraverso uno stile elegante e ricercato. Il rischio della ridondanza, sia formale sia contenutistica, è scongiurato da un dettato che mette proficuamente a confronto passato e presente, tradizione e innovazione, incidendosi nella memoria con i segni indelebili di una punta acuminata su una lastra di rame.
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