Paesaggio umbro con cascate
Reportage Un percorso ternano, in ferrovia, bus di linea e con l’eterno «cavallo di san Francesco». Fino alle Marmore, tra boschi e borghi antichi
Reportage Un percorso ternano, in ferrovia, bus di linea e con l’eterno «cavallo di san Francesco». Fino alle Marmore, tra boschi e borghi antichi
Vide, Leonardo da Vinci, l’arcobaleno delle Marmore che accompagna pacifico il tumulto della cascata più alta d’Europa sullo sfondo di montagne, boschi e borghi di pietra? È una domanda «di attualità», vista la recente ipotesi che l’artista-scienziato si trovasse lì, e non nella sua Toscana, quando realizzò il celeberrimo disegno Paesaggio con fiume, nel 1473. Davanti al triplo salto di 165 metri, l’occhio leonardesco era il più adatto ad apprezzare la ricaduta paesaggistica dell’opera idraulica creata nel terzo secolo a.C., quando il console romano Curio Dentato fece bonificare la piana reatina creando un canale di congiunzione fra i fiumi Velino e Nera.
Al belvedere Specola, torretta panoramica fatta costruire da papa Pio VI nel 1781, arrivò certamente il geografo Philippe Petit-Radet, nei primi anni del 1800: «Il vapore forma una specie di nuvola leggera come polvere, attraverso la quale i raggi del sole che tramonta formano il più bell’arcobaleno (…)». Da attraversare con le dita, sporgendosi verso le acque dal Balcone degli innamorati, incastonato nel travertino alla fine del tunnel omonimo. Sul sentiero n. 1, «Antico passaggio».
In provincia di Terni, la cascata delle Marmore è una delle meraviglie disseminate lungo un percorso d’acqua che possiamo affrontare come comanda il sesto senso, quello ecologico: ferrovia (da diverse città dell’Italia centrale), più bus di linea e funicolare (fra stazioni e paesi), più il «cavallo di san Francesco» (sui sentieri e nei parchi). Il millenario intreccio fra la fatica umana e la pazienza idrica riempie quasi l’alfabeto: acquedotti canali cascate cave cisterne cunicoli dighe fiumi fonti fontanili grotte laghi creati/laghi spariti oasi paludi pozzi parchi fluviali ponti torrenti. E fontanelle e rubinetti: per la nostra borraccia.
È poco adatta alle visite naturalistiche un’uggiosa domenica invernale? Ma no: brulicano di vita tutto l’anno le aree umide come l’oasi Wwf del lago di Alviano, 500 ettari di superficie paludosa e 300 di bosco igrofilo. «Molti visitatori arrivano in treno da Roma la mattina; dalla stazione si avviano a piedi o in bici sulla pista di cinque chilometri nel verde, fino ai nostri due sentieri attrezzati», spiega Maria Neve Medori, una delle responsabili dell’oasi. Dalle fessure di un capanno di legno, indica le numerose famiglie di uccelli acquatici che punteggiano il lago e le sue sponde. Curiose spatole, colorati martin pescatori, aironi, cormorani, sono fra le 200 specie censite, fra migratorie e stanziali. «Al censimento invernale abbiamo contato circa 5.500 esemplari. La sera, oltre trecento cormorani tornano a dormire nell’Isola grande. Quest’estate, con la nostra piccola barca, ci si potrà avvicinare agli estivanti: airone rosso, sgarza dal ciuffetto, nitticora, nibbio bruno…»
E DIRE CHE TUTTO AVVENNE PER UNA DIGA. «Il lago artificiale nacque nel 1963, con la costruzione di uno sbarramento sul fiume Tevere. I sedimenti trasportati diedero origine di un piccolo delta interno. Gli uccelli acquatici se ne interessarono subito! Siamo su una rotta migratoria….. questa zona umida è un autogrill per volatili». Autogestito, o modello mensa per i bisognosi: nelle ristrettezze invernali, lucherini, cince e altri uccelletti frequentano a frotte la mangiatoia della radura nel bosco, pasteggiando a semi di ontano e girasole. Nascosto nel capanno, il fotografo naturalista Pietro Iannetta immobilizza in scatti nitidi e fantasiosi il moto perpetuo dei volatili.
Molto più calmi gli equini tosaerba: i tre cavalli in pensione che pascolano sulle prateria, cavalcati da aironi guardabuoi; e l’asino Berto che con la barbuta capretta Martina tiene pulita l’area del centro di educazione ambientale, un grande edificio di legno sagomato come un uccello.
Sui vicini ontani vola un ibis, con il suo becco egizio; è una specie alloctona, qui ne sono approdati tre esemplari. Chi non ha le ali, per cercare altre saggezze idriche riprende il treno. Pochi minuti, più la funicolare verso Orvieto sulla Rupe, e l’ingresso al pozzo di san Patrizio o della Rocca, magnificente opera di ingegneria idraulica fra i tanti spazi scavati nel tufo della città ipogea: dagli etruschi in poi, cunicoli e cisterne destinati ai rifornimenti privati e pubblici. Il pozzo è il contrario della torre di Babele, non solo perché scende sottoterra (per 62 metri), ma perché è genialmente ordinato. Scavato in soli dieci anni – fra il 1527 e il 1537 – da operai e artigiani, senza l’ausilio di macchine a motore, per attingere l’acqua dalla falda di san Zeno in tempi di assedio, il condotto ha una duplice rampa elicoidale: sui 248 scalini, salivano e scendevano separatamente gli animali da soma. Impossibile descriverlo. Occorre percorrerlo.
Nel borgo di Amelia, a pochi chilometri di corriera dalla stazione di Narni-Amelia, per indietreggiare nel tempo di oltre duemila anni si scende nelle cisterne romane. Dieci maestose navate comunicanti, impermeabilizzate con la tecnica antica – e ora riscoperta – del coccio pesto; capienza fino a 4.400 metri cubi di acqua piovana. Anche Narni, che allunga i suoi vicoli lastricati lungo lo sperone roccioso a precipizio sul Nera, ha una seconda città, quella sotterranea. Con acquedotto, cisterne risalenti al terzo secolo a.C., e un ipogeo fondato sul sangue più che sull’acqua: è la «stanza dei Tormenti», il tribunale dell’infernale Inquisizione.
Partendo dall’ostello Sant’Anna in via Gattamelata, un chilometro in discesa fra il verde ed ecco, verso Narni scalo, una visione chiara fra le chiome degli alberi e il fiume, un’altra opera umana sull’acqua: il ponte di Augusto. Danneggiato nei secoli da alluvioni e terremoti, lascia a noi posteri due colossali piloni.
FRA NARNI E TERNI, pochi minuti di ferrovia; e pochi altri minuti per arrivare alla cascata delle Marmore: con un bus al belvedere inferiore, con un altro bus o il treno, al belvedere superiore. Poi, su o giù, per i 6 sentieri, con tabelle che insegnano come una lezione. Il sentiero 4, «la Maestosità», porta con 300 scalini comodi al belvedere Gmelin, dedicato all’autore tedesco dell’incisione La cascata del Velino a Terni. Per il belvedere dedicato al poeta G.G.N. Byron, basti il suo verso: «impareggiabil cateratta, orribilmente bella».
In cima al sentiero – boscoso – 6, «I lecci sapienti», lo stupore: su un prato è adagiata fra altri reperti un’apparente bomba inesplosa! Ma è – come spiegano i pannelli – la parte di una turbina idraulica dismessa. Già: lassù è tutto così poetico da dimenticare la prosaica verità: la produzione di energia idroelettrica.
Dal belvedere, il bus prosegue verso un lago sa di villeggiatura di altri tempi. È Piediluco, con il suo bel borgo e il cono boscoso del monte Caperno che sembra un’isola al centro dell’acqua ma è un grande promontorio; famoso per l’eco che produce e per la possibilità di perdersi sulle sue stradine. C’era un lago anche a Dunarobba – nel comune di Avigliano. Aveva sepolto una foresta. Ritirandosi, le sue acque rivestirono d’argilla i tronchi, conservandoli. Vecchi due milioni di anni, quaranta giganti mummificati di una varietà estinta di sequoia, riesumati alla fine degli anni Settanta, ora dormono sulle collinette, protetti da strutture a capanna.
Ripartendo dalla stazione di Marmore, il suono della cascata è sostituito da mille cinguettii provenienti dal grande pino sul piazzale, protettivo condominio.
La prossima volta, insieme alla borraccia porteremo semi di ontano.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento