Paesaggi del cuore, tra Scozia e Basilicata
Filmmaker «Being in a Place. A Portrait of Margaret Tait» di Luke Fowler e «L’albume d’oro» di Doria-Guadagnuolo, entrambi presentati quest’anno alla rassegna milanese
Filmmaker «Being in a Place. A Portrait of Margaret Tait» di Luke Fowler e «L’albume d’oro» di Doria-Guadagnuolo, entrambi presentati quest’anno alla rassegna milanese
Being in a Place. A Portrait of Margaret Tait di Luke Fowler e L’albume d’oro di Doria-Guadagnuolo, entrambi presentati quest’anno alla rassegna milanese Filmmaker, pur nella loro diversità sono accomunati da un uso del 16mm volto a registrare liricamente la relazione tra essere umano/tempo/natura.
In un clima di rivalutazione generale del cinema al femminile, forse varrebbe la pena di dedicare un po’ di attenzione anche a Margaret Tait, medico, poeta e cineasta scozzese al centro di Being in a Place, mediometraggio realizzato nel 2022 da Luke Fowler. Personalmente ho scoperto i film della Tait quando nel 1994 curai al Museo di Arte Contemporanea de La Sapienza di Roma una retrospettiva sul landscape film britannico degli anni ’70-’80 in collaborazione con la London Filmmaker’s Coop. Oltre ai film di Raban, Welsby, Sercombe e altri, proiettai anche due cortometraggi di Tait, figura allora come oggi piuttosto sconosciuta. Eppure questa donna, nata nel 1918 e scomparsa nel 1999, aveva seguito i corsi nei primi anni ’50 presso il nostro Centro Sperimentale di Cinematografia, formandosi nel clima del neorealismo. Quando ritornò in Scozia Tait continuò a fare film, autoprodotti con la sua casa di produzione chiamata Ancona Film, nome desunto dalla via nei dintorni di piazza Fiume, dove aveva abitato nei suoi anni romani.
Quello di Fowler non è un documentario nel senso classico, ma è un lavoro sperimentale che – a partire da una serie di materiali audio e video – cerca di ricostruire in particolare un progetto mai andato in porto che Tait cercò di realizzare per Channel 4 dall’eloquente titolo Heartlandscape. In realtà il cinema di Tait, per quanto possa essere assimilato al landscape film inglese (definizione di comodo che non indica un vero e proprio «genere» del cinema sperimentale), se ne distacca poiché più libero rispetto alla ossessiva ricerca tecnica operata sul dispositivo dagli altri filmmaker, anagraficamente più giovani di lei. Gli oltre trenta cortometraggi girati tra il 1951 e il 1998, sono poemi filmici a tutti gli effetti, dove ciascuna inquadratura ha il respiro e l’intensità di un verso che descrive soprattutto la natura nelle sue trasformazioni temporali, ma anche le azioni dell’uomo, integrandole a volte con la parola orale e scritta o con il segno astratto (Colour Poems del 1974, uno dei suoi film più noti).
L’obiettivo di Fowler non è però di ordine meramente filologico, ma piuttosto cerca di restituirci il contesto in cui ha vissuto Tait, l’habitat dell’isola di Orkney, nonché il suo sguardo sulla natura circostante. Per far ciò il filmmaker mescola spezzoni girati dalla cineasta, tagli, prove, test, schizzi, appunti, lettere, fotografie, aggiungendo in sottofondo alcune registrazioni audio in cui Tait legge suoi versi e si racconta, parlando ad esempio dei registi che ha amato e l’hanno influenzata: da Buñuel a Ozu, da De Sica a Wilder, alcuni dei quali – vedendo i suoi film – non ci si aspetterebbe di sentir nominati.
La cineasta compare solo fugacemente in foto, ma per tutto il tempo ne avvertiamo la sua presenza. Pochi sono gli interventi di chi l’ha conosciuta e, in ogni caso, Fowler sceglie sempre un montaggio discrepante senza mettere in sincrono visivo e sonoro, allontanandosi dal registro documentaristico. Ne viene fuori un piccolo gioiello di grazia e raffinatezza dove è difficile distinguere il found-footage (del resto non vi sono didascalie) dalle sequenze girate per l’occasione. Vi sono inoltre anche rush non utilizzate dell’unico documentario dedicato al cinema di Tait da Margaret Williams. Poiché la sfida è proprio questa: da un lato completare il film mai realizzato, dall’altro farci comprendere l’immaginario di Tait attraverso un procedimento di mimesi e di assimilazione, in cui il vero protagonista, oltre al paesaggio, risulta essere il dispositivo 16mm, sorta di camera-stylo che Tait usa «metricamente» per filmare le sue poesie visive.
Altrettanto poetico è il nuovo film diretto da Tiziano Doria e Samira Guadagnuolo, elegia in bianco e nero girata nella campagna lucana (Venosa) costruita su un tempo sospeso e su uno sguardo magico-rituale. Non c’è bisogno di scomodare Ernesto De Martino – che a queste aree del Sud Italia ha dedicato gran parte delle sue ricerche antropologiche – per capire come, partendo dal reale e da una dimensione intima e famigliare, il duo espanda poi il «racconto» verso una dimensione mitico-onirica, sia alternando immagini reali a rappresentazioni pittoriche tra XIV e XVI secolo (Giotto, Carpaccio, Piero e Raffaello), sia mescolando lunghi momenti di pura osservazione della campagna (la gallina, i frutti, le tecniche contadine) a riflessioni in versi. Come sempre le pratiche di Warshadfilm sono all’insegna della più totale autarchia, poiché – come recitano le note di produzione – riprese, sviluppo del negativo, stampa e montaggio sono state realizzate nel loro laboratorio milanese «con l’intento di riappropriarsi dell’intero processo di produzione filmica».
Per certi versi L’albume d’oro sembra rievocare un film sperimentale italiano come D – Non diversi giorni… (1970) di Anna Lajolo e Guido Lombardi: medesimo formato, medesimo ritmo lento e sospeso, medesimo afflato «politico», ovvero la necessità di mettere in scena – partendo dalle antiche radici culturali, le Georgiche virgiliane nel caso di D – una meditazione sull’equilibrio perduto (ma forse ancora recuperabile) tra l’uomo e l’ambiente naturale. Prima che sia troppo tardi e che gli uomini, ridestandosi dal sonno, guardino in faccia la realtà.
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