Paesaggi contemporanei
Berlinale Migranti, mutazioni geopolitiche, la Storia delle rivoluzioni contro il colonialismo. La 66a edizione dichiara di voler parlare al mondo. Da «Fuocoammare» di Gianfranco Rosi girato a Lampedusa alle Filippine di Lav Diaz
Berlinale Migranti, mutazioni geopolitiche, la Storia delle rivoluzioni contro il colonialismo. La 66a edizione dichiara di voler parlare al mondo. Da «Fuocoammare» di Gianfranco Rosi girato a Lampedusa alle Filippine di Lav Diaz
Un luogo di riflessione internazionale. È così che il suo direttore, Dieter Kosslick, ha definito la prossima Berlinale (11-21 febbraio) presentandone qualche giorno fa nella capitale tedesca il programma. Con un numero di presenze annunciate che sfiora le 19.000, un mercato in cui si gettano le basi per le prossime scadenze importanti, la selezione che comporta oltre 400 titoli, il festival tedesco è ormai un appuntamento obbligato per l’industria cinematografica. Anche se la sua forza, e la sua pecularità rispetto agli altri «big» festival europei (Cannes Venezia) è di essere radicato nella metropoli, frequentatissimo dai berlinesi (e non solo) che per dieci giorni riempiono fino al sold out le numerose multisale.
Forse anche per questo la Berlinale (che da quest’anno si è allineata al controllo anti-terrorismo di borse e zaini per l’accesso in sala, già in vigore a Cannes, così annuncia il sito) ci tiene a rivendicare nella quasi bulimica diversità dell’offerta – persino troppo – alcune linee editoriali chiare. Una su tutte il legame con l’attualità del mondo e della Germania. Nella 66a edizione il riferimento che attraversa i film da una sezione all’altra sono i migranti. Rotte pericolose, fughe a rischio di morte, arrivi non facili. Ma anche rapporti costruiti giorno dopo giorno, scommesse vinte e perse. Un «esodo epocale» (parole di Kosslick) che la politica e la società tedesca stanno vivendo in modo diretto, dall’impegno di Angela Merkel coi profughi alle recenti polemiche esplose dopo le violenze la notte di Capodanno e ora a Carnevale a Colonia e in altre città.
Fuocommare è il solo film italiano nell’intera selezione (incredibile verrebbe da dire) ed è firmato da uno dei nostri migliori registi, Gianfranco Rosi, capace come pochi di far vibrare la realtà in una narrazione che non si ferma agli accadimenti, alle superfici, al sentire comune – basta pensare al suo magnifico Below Sea Level ora disponibile in un cofanetto dvd per Feltrinelli. Siamo a Lampedusa dove Rosi ha vissuto per un anno, quella che prima era «l’isola delle vacanze» (e dei Conigli) è divenuta l’isola degli sbarchi, delle immagini disperate che vediamo ripetute ogni giorno in tv, sui social, negli articoli dei giornali. Come farne un film? Come spostare lo sguardo oltre l’evidenza? Nel film di Rosi ci sono i migranti e c’è la vita sull’isola, ci sono i lampedusani, c’è un ragazzino di dodici anni che si chiama Samuele e ama tirrare con la fionda. Siamo sicuri che scopriremo qualcosa di questa realtà.
Colorado Velcu quando era un ragazzo teneva un diario. Dalla Romania lui e la sua famiglia si sono trasferiti in Germania, a filmare il loro arrivo e la fatica quotidiana che è conquistare un proprio spazio in un nuovo Paese vi sono degli amici filmmakers tedeschi. And-Ek Ghes… (Forum) regia di Colorado Velcu e da Philip Scheffner segue questo passaggio e anche molto altro dando voce ai tanti componenti della numerosissima famiglia rom nelle cui storie si mescolano leggende e rappresentazioni di sé stessi che si oppongono ai luoghi comuni.
Migranti su un confine chiuso sono i protagonisti del nuovo film di Avi Mograbi Between Fence e di Wang Bing Ta’ang, il primo girato sul confine tra Israele e Egitto, il secondo tra la Cina e Myanmar, entrambi al Forum. Così come Havaria di Philip Scheffner decostruisce l’immagine dominante del battello alla deriva con voci, suoni, conversazioni che aprono un fuoricampo spazzante, un mondo oltre il bordo di quella terribile «icona» contemporanea.
Col titolo «Traversing the Phantasm» il Forum Expanded, la sezione di crossover – fuori e dentro la sala – raccoglie una serie di lavori di artisti, video e installazioni che cercano le tracce di mutamento nei paesaggi, i loro sconvolgimenti e le conseguenze che producono. Paesaggi geografici e paesaggi umani. La scommessa è sempre la stessa: arrivare in profondità, rompere la retorica della lacrima, dell’impegno legato all’attualità e ai sensi di colpa. Il mondo come è e quello che vi sta dentro, sotto, a lato, fuori dal fotogramma.
Al Marhala Al Rabiaa (The Fourth Stage), un lavoro video di Ahmad Ghossein girato nel sud del Libano, mostra la scomparsa di un vecchio mago e l’apparizione di un nuovo monumento nel paesaggio. Insieme a una lettura-performance dal titolo When the Ventriloquist Came and Spoke to Me l’artista traccia una sorta di mappa delle ideologie contemponaee cercando di farne emergere i conflitti nelle sue immagini.
Cosa accade quando un paesaggio si trasforma seguendo la logica della geopolitica invece che quella dell’umano? Tracciare una storia del colonialismo subìto dal proprio Paese che ne ha definito, e continua a definirne l’assetto, le identità, la politica, la questione sociale è una possibile risposta. In concorso – con una certa spericolatezza vista la durata, otto ore – la Berlinale presenta il nuovo film di Lav Diaz, il regista «guida» delle nuove onde filippine, quei cineasti che tra la fine degli anni Novanta e i Duemila hanno rilanciato il loro cinema appropriandosi della «lezione« di Lino Brocka, e dei suoi fiammeggianti melò politici. È un cinema politico quello di Lav Diaz, che scrive alla prima persona la storia delle Filippine, rivendicando una voce contro la colonizzazione, degli spagnoli, dell’America, del cattolicesimo e al tempo stesso mette in discussione le categorie del cinema, il tempo, la durata, la costruzione del racconto.
A Lullaby to the Sorrowful Mistery mescola i destini di più personaggi come spesso accade nei suoi film, a partire dalla figura di Andres Bonifacio y de Castro, il più importante rivoluzionario filippino nella lotta agli spagnoli nel XIX secolo, che viene considerato il padre della Rivoluzione filippina. Storia e miti si incontrano. Diaz li interroga nell’astrazione del bianco e nero. Sono i destini individuali che il regista mette al centro e rende espressione del conflitto e di una perdita collettiva. Da una parte i rivoluzionari e le loro utopie, dall’altra il potere coloniale che produce divisioni cercando di mettere chi gli resiste uno contro l’altro. E poi la vedova di Bonifacio che cerca il corpo del marito. Il passato si riflette sul presente, delinea una Storia che si oppone a quella dominante. Il cinema diviene un’arma meravigliosa
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