Padri e figli tra redenzione e istanti di grazia
Al cinema «Ride», l'esordio alla regia di Valerio Mastandrea, raccoglie luoghi e personaggi dell'immaginario incarnato dall'attore romano, periferie, un'urbanità randagia, un'umanità stanca eppure fiera
Al cinema «Ride», l'esordio alla regia di Valerio Mastandrea, raccoglie luoghi e personaggi dell'immaginario incarnato dall'attore romano, periferie, un'urbanità randagia, un'umanità stanca eppure fiera
C’è nella figura di Mastandrea come un alone, un’eco che lo trasfigura in qualcos’altro da un corpo: qualcosa come un’atmosfera, proprio un campo semantico che viene direttamente da quel Tutti giù per terra che lo consacrò attore dotato di magnetismo, al centro di un immaginario incarnatosi da lì in poi nelle sue espressioni, nelle movenze, tutto un recitare che scandisce un’urbanità randagia, periferica, un’umanità stanca, ferita, eppure fiera, alle prese con la fatica del lavoro, dell’affezione, dello stare tra la polvere, per le strade. Una costellazione di motivi topici, non tipici, che ora cercano di trovare un equilibrio in Ride, opera prima dell’attore romano, che sembra voler raccogliere qui tutti quei luoghi e quei personaggi così diversi tra loro eppure così significativi.
MA IL FILM è discontinuo, sconnesso, artato: mi libero subito di questo cruccio, in ottemperanza a una supposta deontologia critica (che deve soppesare il materiale linguistico che ha di fronte), per potermi poi abbandonare al racconto dell’emozione, della commozione imprevista (del resto confortata proprio da un riassetto di quel materiale) che questo piccolo, sgangherato e sincero film riesce a provocare. Tutta la prima parte ha l’impaccio della prima volta: lo scollamento delle scene, dialoghi sottolineati (soprattutto quelli tra i bambini); una messa in scena che mostra la propria maniera, la propria convenzionale artificiosità; personaggi irretiti dalla volontà di piacere a un pubblico di Amelie; fino a che, progressivamente, tutto si assesta e i pezzi di quello che era stato un dissesto cinematografico, cominciano a combaciare, liberando i personaggi ora immersi nel loro dolente e resistente palpitare; legando le scene tra loro, prendendo densità e fluidità, proprio verità narrativa. Ed è come se alla luce di questo scarto, anticipato dall’ingresso in scena di un fantasmatico Stefano Dionisi, anche la prima parte del film si giustificasse, si diluisse in questo nuovo corso, a partire dalla lunga, magnifica sequenza in cui Lullabye For Christie dei Dirty Three rintocca il dramma di una bara e di una redenzione che non può che avvenire nell’abbraccio convulso dei colpi paterni. Non ci sarebbe potuta essere scelta migliore di questo capolavoro dei Dirty Three, che del resto è solo parte di una colonna sonora straordinaria, a innervare le immagini di una luce finalmente verace, e comprendente tra gli altri, Ultravox, Sparklehorse, Ivan Graziani.
RESTA il senso concreto di una comunità, quella dei padri, dei figli (legati da un retaggio di orgoglio, di mancanze, di amore sottaciuto, inalienabile); la comunità dei lavoratori, riunita per le strade, sulle spiagge di Ostia, nei piccoli, ingombri appartamenti proletari, in cui si realizza qualcosa come un momento di grazia, la pastosa, sospesa fantasmagoria mista a ricordo, di un pasto che passa da una bocca all’altra.
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