Visioni

«Padre Pio» nelle ferite del suo tempo

Shia La Beouf in «Padre Pio»Shia La Beouf in «Padre Pio»

Al cinema Arriva in sala il film di Abel Ferrara, lettura storica, politica e eccentrica del celebre santo. Scritto insieme a Maurizio Braucci e interpretato da Shia LeBeouf, rifiuta ogni dialettica e ribalta sullo spettatore la responsabilità della sintesi impossibile. La religiosità e la tentazione, l’Italia anni Venti, il massacro dei socialisti e dei contadini

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 18 luglio 2024

Dopo Pasolini e Dominique Strauss-Kahn (Welcome to New York), Padre Pio: la linea biografica abbracciata negli ultimi dieci anni da Abel Ferrara (cui eccentricamente appartiene anche Tommaso) si arricchisce del suo episodio più intenso e anche sconcertante.

IL FRATE di Pietrelcina (interpretato benissimo da Shia LaBeouf) viene colto nel suo arrivo al convento dei cappuccini di San Giovanni Rotondo e seguito nella sua quotidiana preghiera. Più del santo del «fare» della tradizione popolare, protagonista di guarigioni miracolose ed edificatore di opere di bene, Ferrara racconta il mistico costantemente impegnato nella lotta notturna contro il male. Visitato prima da una pantera nerissima, poi da una ragazza intenzionata a farlo cedere al peccato della carne e, infine, dalla più impegnativa di tutte le materializzazioni del maligno: un’incredibile Asia Argento in panni maschili che confessa a Padre Pio violenze contro la figlia prima di sibilare in una radicale dichiarazione di ateismo. Terribile la esplosiva risposta: «Ringrazia che non sono Dio, ma solo un prete», abissale espressione di superbia che dà la misura del personaggio.

Accanto alla storia del frate corrono parallele, e molto più ampiamente sviluppate, le vicende che portarono alla strage di San Giovanni Rotondo dove, il 14 ottobre 1920, in pieno biennio rosso, 13 militanti socialisti vennero uccisi da un guarnito schieramento di carabinieri, soldati e fascisti che rifiutavano l’esito a loro sfavorevole della consultazione elettorale appena conclusa.

FERRARA risale al ritorno a casa dei soldati della Prima guerra mondiale, offrendo una visione locale del fenomeno del reducismo, e quindi mostra le origini della lotta di classe nelle campagne, le alleanze tra agrari, militari e clero, le divisioni dei socialisti tra massimalisti e riformisti, la presenza di borghesi traditori della loro classe accanto ai contadini, l’irriducibilità delle morti ingiuste dei bambini alle parole e alle logiche della politica.

Nonostante i molti possibili ganci etici, la linea contadina e quella conventuale rimangono indipendenti con il montaggio parallelo che esibisce giustapposizioni evidentemente arbitrarie. Il film rifiuta ogni dialettica e ribalta sullo spettatore la responsabilità della sintesi impossibile: le due storie, affascinanti e potenti, non si possono combinare che nella testa di chi sta vedendo il film. Anche Ferrara rinuncia a essere il dio del suo film e sfida lo spettatore ad abbandonare le vie consuete e a trovare la propria personale chiave. Non è la prima volta che Ferrara costruisce il film lungo una logica binaria, ma qui l’esito è agli antipodi di quello del gioco di New Rose Hotel: qui, al termine di una fuga filmico-contrappuntistica restano più domande che risposte, sintomo di un’empasse critica profonda quanto feconda. Un film bello e importante che arrivando in sala a due anni dalla presentazione veneziana alle Giornate degli autori merita un riconoscimento del suo valore.

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