Pacuvio, scene madri della tragedia repubblicana
Classici perduti Studiare il teatro latino arcaico (Ennio, Pacuvio, Accio e minori) significa fare i conti con i limiti della filologia: i casi indiziari del «Chryses» e dell’«Iliona»
Classici perduti Studiare il teatro latino arcaico (Ennio, Pacuvio, Accio e minori) significa fare i conti con i limiti della filologia: i casi indiziari del «Chryses» e dell’«Iliona»
Applausi a scena aperta. Il pubblico, in piedi nella cavea di un teatro mobile di legno (il primo in muratura sarà fatto costruire da Pompeo solo molti decenni più avanti), si emoziona di fronte a una delle scene più celebri della tragedia romana arcaica. Protagonisti due amici e un re che ha decretato di giustiziarne uno: Oreste deve morire. Il re non sa chi dei due sia effettivamente Oreste e allora Pilade, amico pronto a morire al suo posto, dichiara di essere lui la persona incriminata, mentre anche Oreste dichiara la stessa cosa. Ambo ergo igitur simul una enicarier / comprecamur («dunque chiediamo di essere ammazzati tutti e due in una volta»): l’ultima battuta, pronunciata all’unisono dai due, è un piccolo scrigno di elementi formali tipici del teatro di età repubblicana. L’esordio con il pronome duale, il tema della contemporaneità della morte con simul e una posti immediatamente l’uno dopo l’altro, la collocazione dei due verbi in posizione enfatica alla fine e all’inizio del verso, l’insistenza sul suono r rafforzata dalla forma arcaica di infinito passivo enicarier: scelte stilistiche che danno un’idea della potenza scenica, e soprattutto sonora, di questo teatro in larghissima parte perduto.
Pervenute esclusivamente in frammenti, le tragedie latine di età repubblicana pongono agli studiosi problemi a diversi livelli: dalla costituzione di un testo critico sicuro all’interpretazione metrica, dall’indagine preliminare sui contesti di trasmissione ai tentativi di ricostruzione della trama, dal rapporto con i modelli greci alla presenza di questi testi in autori successivi. Spesso si ha l’impressione di avanzare a tentoni nel buio, a piccoli passi ora più sicuri ora molto meno.
La scena di amicizia tra Oreste e Pilade è emblematica in questo senso. L’episodio è citato da Cicerone, grande amante del teatro e fonte di numerosi frammenti tragici latini, in ben tre contesti diversi (due volte nel De finibus e una nel De amicitia). Anche se fornisce diverse indicazioni utili a restituire la scena nei dettagli (è Cicerone a informarci della presenza di un re che ignora l’identità dei due) e le reazioni entusiaste del pubblico (con note sugli applausi e sulla partecipazione emotiva di fronte a questa scena di finzione), la testimonianza ciceroniana non risolve del tutto i problemi che si presentano allo studioso di teatro antico. E così per esempio i versi sono attribuiti sì a Pacuvio, ma nulla viene detto della tragedia da cui sono tratti: è solo sulla base del confronto con un altro frammento pacuviano, trasmesso dal grammatico Nonio Marcello (IV secolo), in cui un personaggio dichiara di aver scoperto chi dei due sia Oreste (inveni, opino, Orestes uter esset tamen, «eppure ho scoperto, credo, chi dei due sia Oreste»), che si tende a considerare questa scena parte della tragedia Chryses da cui il frammento di Nonio deriva con certezza; naturalmente, bisogna accettare il rischio di associare i due frammenti, un’opzione senz’altro verosimile ma tutt’altro che sicura per via della scarsità dei testi a noi giunti.
D’altra parte, i versi richiamati da Cicerone sono spesso intercalati con fluidità sintattica all’interno della prosa, quindi la costituzione del testo è resa incerta dalla difficoltà di individuare con esattezza i confini della citazione: in casi come questo un valido aiuto arriva dalla metrica, ma non di rado gli studiosi devono intervenire anche solo per restituire alla prima persona discorsi diretti riportati in terza persona nella fonte oppure per ricostruire un’intera sequenza di versi trasmessa con errori. Nel nostro caso, la presenza della scena in ben tre contesti permette un utile confronto, ma è solo in un passo del De finibus (5, 63) che Cicerone riporta i versi con relativa esattezza. La tradizione manoscritta è però problematica proprio in quel punto e i codici hanno una catena di sillabe (sunaneganum) che gli studiosi di Cicerone ritengono irrimediabilmente corrotta. E così i nostri passi a tentoni nel buio si fanno ancora più incerti: il testo che abbiamo commentato, simul una enicarier, è infatti tutt’altro che sicuro, perché è una congettura. La proposta resta per me la più convincente avanzata sinora, anche se insospettisce il cumulo di avverbi che presuppone, ed è frutto dell’ingegno di uno dei più grandi studiosi di frammenti tragici arcaici, il tedesco Otto Ribbeck, che ne ha curato l’edizione critica per ben tre volte: le sue ultime due edizioni, datate rispettivamente 1871 e 1897, restano il punto di riferimento indispensabile per chiunque si accosti alla tragedia romana di età repubblicana. E dunque, per quanto elegante e verosimile ci sembri la congettura, dobbiamo ammettere che della battuta pronunciata insieme da Oreste e Pilade non conosciamo con sicurezza le parole esatte.
Provare a ricostruirle è il lavoro (difficile) dei filologi. In ogni caso, qualunque sia la soluzione, l’emozione di quel pubblico in piedi nella cavea ci arriva con forza dai racconti di Cicerone, ed è anche grazie a questi racconti che la scena di Pacuvio, paradigma di proverbiale amicizia, ha potuto essere conosciuta ancora in età imperiale (interessanti alcuni epigrammi di Marziale), e nella tarda antichità (per esempio da sant’Agostino).
Studiare il teatro tragico latino di età repubblicana significa fare i conti con i limiti della filologia. Ovunque troviamo tracce della conoscenza di tragedie di Ennio, Pacuvio, Accio o autori minori, ma il più è andato perduto per sempre nel grande naufragio della tradizione. Almeno in qualche caso possiamo indagare meglio le scene e la loro fortuna, e così il senso di sconforto di fronte alla frammentarietà dei testi lascia spazio al fascino della sfida. Succede, ad esempio, per il prologo della Medea di Ennio, che contiene i versi della tragedia arcaica più citati in assoluto.
Ma capita anche in casi meno noti, come quello dell’Iliona di Pacuvio. Cinque versi, probabilmente appartenenti al prologo di questo dramma ispirato all’Ecuba di Euripide, si offrono come un oggetto di studio davvero ‘speciale’. Riportati per esteso da Cicerone nelle Tuscolane (1, 106), essi iniziano con una battuta divenuta celeberrima. Il dramma è incentrato sulla figura di Iliona, madre di Deipilo e sorella di Polidoro che le viene affidato dalla madre Ecuba nel tentativo di salvarlo. Deipilo e Polidoro sono perfettamente coetanei e vengono scambiati dalla donna, che così facendo, senza volerlo, condanna a morte il figlio, ucciso da Polimestore convinto che sia Polidoro. Iliona è, dunque, una figlicida inconsapevole: perfetta figura tragica per un poeta come Pacuvio, che amava rappresentare drammi familiari complicando notevolmente la trama rispetto ai modelli greci.
Nei versi citati da Cicerone lo spettro di Deipilo, apparso a sua madre, le chiede di essere seppellito: Mater, te appello, tu, quae curam somno suspensam levas / neque te mei miseret, surge et sepeli natum (“Madre, ti invoco, tu, che con il sonno dai tregua all’affanno angoscioso / né hai pietà di me, àlzati e seppellisci tuo figlio…»). Così inizia la citazione, che Cicerone introduce fornendo un’interessante indicazione scenica: ecce alius exoritur e terra («ecco che un altro si leva dalla terra»). Il personaggio che interpreta Deipilo si tira su all’improvviso dal basso, in una scena di grande impatto visivo. Si può immaginare che ciò avvenisse attraverso una botola nascosta nel pavimento rialzato del palcoscenico: se questo non può essere sicuro per la data di composizione del dramma, per la quale non ci sono riscontri archeologici, è invece probabile avvenisse in età augustea quando questa tragedia continuò a essere rappresentata.
E di una messinscena di questo periodo abbiamo una testimonianza davvero particolare. Nelle Satire (2, 3) Orazio ricorda due attori impegnati nella scena iniziale dell’Iliona: Fufio interpreta Iliona che dorme sulla scena, mentre Cazieno recita la parte di Deipilo. Il povero Cazieno dovrà pronunciare mater te appello per milleduecento volte, perché Fufio, arrivato ubriaco in scena, si è addormentato per davvero!
Se molto più frequente è il caso di versi isolati citati da grammatici senza indicazioni di contesto, in casi come questi le battute prendono vita all’interno di una scena. Qualche volta i nostri passi nel buio sono illuminati da affascinanti sprazzi di luce.
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