Pachinko, l’azzardo del flipper verticale
Maboroshi Uno degli effetti dello stato di emergenza dichiarato in Giappone, è stato di riportare all’attenzione del grande pubblico le sale da gioco con tutto il loro lato oscuro.
Maboroshi Uno degli effetti dello stato di emergenza dichiarato in Giappone, è stato di riportare all’attenzione del grande pubblico le sale da gioco con tutto il loro lato oscuro.
Uno degli effetti dello stato di emergenza dichiarato in Giappone, da poco esteso fino a fine maggio e che, ricordiamo, è un vero e proprio lockdown, è stato di riportare all’attenzione del grande pubblico le sale di pachinko con tutto il loro lato oscuro. Si tratta del gioco informalmente d’azzardo più diffuso in Giappone, una sorta di flipper verticale che ogni anno, secondo i dati forniti da Bloomberg, genera un giro di affari di circa 170 miliardi di euro. Ufficialmente non si tratta d’azzardo perché le biglie vinte nelle sale non corrispondono a soldi, ma le si possono scambiare con denaro in appositi sportelli ad esse esterne.
Il primo ministro Abe ha chiesto la chiusura di queste sale, per legge non può obbligare, ma molte hanno deciso di procedere lo stesso, attirando le ire di molti, compresi i governatori delle prefetture che hanno così optato per rendere pubblico il nome di quelle aperte. La prima reazione è stato il paradossale affollamento e formazione di code davanti ai pochi luoghi di gioco rimasti aperti, per molti giapponesi il pachinko infatti è una vera e propria ludopatia. Ora sembra però che molte delle catene che gestiscono questi spazi abbiano ceduto e deciso di chiudere, anche perché sono luoghi densamente affollati e perciò altamente pericolosi.
INTERESSANTE come un gioco «innocuo» si sia trasformato nei decenni in un vera e propria industria con moltissime ombre, non solo la dipendenza da gioco e vite rovinate, ma anche denaro che spesso va a finanziare i lati più oscuri dell’arcipelago.
Il pachinko nasce come una derivazione giapponese di alcuni giochi da tavolo di probabile origine inglese arrivati nel Sol Levante nel 1924. Essendo un «gioco» creato per i più piccoli, inizialmente il korintu gemu, così fu chiamato, trovò posto nei negozi di caramelle e dolciumi, ad ogni buco del «flipper» corrispondeva un punteggio a cui era assegnato un premio diverso, di solito caramelle o frutta. Ben presto i bambini cominciarono a chiamarlo pachi-pachi dall’onomatopea usata in giapponese per indicare il cliccare e lo scattare di meccanismi. Nello stesso periodo, siamo a metà degli anni venti, i primi korinto gemu cominciarono ad apparire anche in sale frequentate da adulti e intorno al 1926 si decise di cambiare la posizione, da orizzontale a verticale e usare il nome pachinko. Dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale fu Masamura Shoichi che con le sue modifiche rivoluzionò la meccanica, le sfere di metallo invece che cadere e finire il loro percorso potevano rimbalzare e andare in buche con punteggi diversi. Proprio in questo periodo si uniformò anche il sistema delle vincite, ad ogni punteggio e quindi buca, corrispondevano altre biglie di metallo.
NEGLI ANNI SETTANTA molte compagnie sfruttarono il momento positivo di un paese che finalmente si lasciava alle spalle il periodo bellico e cominciano così a produrre pachinko a livello seriale, introducendo nelle macchinette anche l’elettricità. Un altro momento importante fu – a fine settanta – l’avvento dei primi videogiochi. Stimolati da questa concorrenza, nel 1980 cessò la fabbricazione di macchinette ed iniziarono i modelli elettronici con suoni e luci incorporati, che poi diventeranno schermi computerizzati e mini televisioni, una parte fondamentale del «fascino» e del potere quasi allucinatorio che i pachinko mantengono ancora. Entrare oggi in una sala da pachinko significa venir aggrediti da un muro del suono, da una coltre di fumo da sigarette e da luci quasi ipnotiche, un mix letale che attira e avvolge i giocatori come in una nube stordente.
matteo.boscarol@gmail.com
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