Non è mai un momento facile per il Pakistan. E questo è uno dei più difficili per un paese afflitto da una profonda crisi socioeconomica, segnato da continue violenze religiose e di fatto sempre in guerra, di attrito o aperta, con l’India. Senza dimenticare i rapporti di Islamabad con il terrorismo jihadista e i Talebani. La deposizione improvvisa nelle scorse settimane del premier Imran Khan ha innescato imponenti manifestazioni di protesta contro il nuovo governo che, annullando i sussidi statali, ha dato il via libera all’aumento del 20% del carburante, in accoglimento di una delle condizioni del FMI per sbloccare aiuti al Pakistan per 6 miliardi di dollari. Ma c’è stato un altro motivo nel paese per protestare in massa: il viaggio che quindici pakistani, in possesso anche della cittadinanza statunitense, hanno effettuato in Israele alimentando le voci che circolano da tempo su una possibile normalizzazione di rapporti tra Islamabad e Tel Aviv nel solco degli Accordi di Abramo che nel 2020 hanno visto Israele avviare relazioni diplomatiche con quattro paesi a maggioranza islamica: Emirati, Bahrain, Sudan e Marocco. L’ex premier Khan a mezza bozza ha descritto questa opzione come parte del «complotto» che lo ha estromesso dal potere.

A dire il vero il viaggio a Gerusalemme e in Israele all’inizio ha generato poca attenzione tra israeliani e palestinesi. Non è stato così in Pakistan. Ahmed Quraishi, noto giornalista televisivo e parte della delegazione, spiega che le proteste rappresentano l’inizio di un dibattito nazionale in Pakistan sull’instaurazione di legami diplomatici con Israele. Comunque sia il senato pakistano ha approvato una risoluzione che conferma la posizione contro l’avvio di rapporti con Israele e criticato l’organizzazione che ha guidato il viaggio, l’American Muslim and Multifaith Women’s Empowerment Council. La rabbia in Pakistan è aumentata dopo che il presidente israeliano Isaac Herzog al recente vertice di Davos ha rivelato il suo incontro con la delegazione pakistana-americana nella sua residenza a Gerusalemme.

Ufficialmente il Pakistan si rifiuta di stringere legami diplomatici con Israele fino a quando i palestinesi non avranno uno Stato indipendente. Questa è stata a lungo la posizione di molti paesi a maggioranza musulmana. Poi nel 2020 sono arrivati gli Accordi di Abramo a trasformare radicalmente il quadro tra lo sgomento dei palestinesi. Comunque, dietro le quinte Islamabad e Tel Aviv intrattengono da tempo dialoghi su questioni militari e di sicurezza – entrambe sono potenze nucleari – e i rispettivi ministri degli esteri si sono incontrati pubblicamente nel 2005. «Non posso dirvi che il Pakistan sarà il prossimo Stato a aderire agli Accordi di Abramo e che accadrà domani…ma noi ci auguriamo che ogni paese musulmano moderato in Medio Oriente si unisca», ha detto di recente il ministro dell’intelligence israeliana Elazar Stern.

Tenendo conto della profonda avversione della società pakistana alla normalizzazione con Israele, il governo Bennett punta con più decisione sull’Arabia Saudita come prossimo membro degli Accordi di Abramo. Un obiettivo al quale punta anche Joe Biden, atteso nelle prossime settimane in Medio oriente. Il presidente Usa è pronto a investire sulla soluzione definitiva della sovranità saudita delle isolette di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso e per questo userà anche un emendamento ai vecchi Accordi di Camp David pur arrivare al trattato di pace tra Israele ed Arabia saudita. Riyadh però resta riluttante e malgrado gli sforzi dell’Amministrazione Usa, fa capire che la «pace» con Israele la firmerà solo se riprenderanno i negoziati tra palestinesi e israeliani. Per guadagnare tempo e per assecondare almeno in parte i propositi di Biden, la monarchia Saud spinge su Islamabad affinché diventi la quinta capitale islamica ad accettare la normalizzazione con lo Stato ebraico. Pressione non da poco perché Riyadh è una importante bombola di ossigeno per il Pakistan. A questo tavolo di poker la monarchia saudita ha un’ottima carta: un prestito di 2 miliardi di dollari per tenere a galla il Pakistan, ma il rinnovo è in dubbio, motivo di molta ansia a Islamabad. L’ultima parola però spetta all’esercito, il potere più forte che gestisce la diplomazia in Pakistan.