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Pablo Echaurren: io, Duchamp e il punk

Pablo Echaurren: io, Duchamp e il punkElection Day (2013) – Pablo Echaurren

Intervista Incontro con l'artista e scrittore a cui il Mart di Rovereto dedica una mostra che si inaugura il 7 aprile

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 aprile 2019

L’occasione per una conversazione e uno sguardo retrospettivo su 50 anni di attività dell’artista romano, è offerta da un libro e da una mostra che inaugura il 7 aprile al MART di Rovereto

È difficile sintetizzare la multiforme attività di Pablo Echaurren, così come è impossibile classificare questo artista (nato a Roma nel 1951) che è sempre stato un outsider in qualunque contesto si sia trovato, dagli anni ’70 in cui ha incarnato l’estetica dell’attivismo politico agli anni ’80 sotto il segno del fumetto, dai suoi disegni e dalle composizioni pittoriche dense di forme, colori, riquadri e lettering, ai collage minimalisti, agli stickers, alle mappe psicogeografiche. Si perché, per sua stessa ammissione, ha cercato di non ripetersi, di cambiare pelle e stile per non annoiarsi e anche, in qualche modo, per non essere incasellato e per sfuggire alle logiche del mercato. Echaurren ha nutrito sempre diffidenza verso il mondo dell’arte, totalmente ricambiato e ha avuto due numi tutelari: uno reale, Gianfranco Baruchello, anche lui per decenni inviso al sistema; l’altro ideale, Marcel Duchamp, cui ha dedicato diverse opere, mostre, e anche un recente «libriccino d’artista» dove ha esplorato il suo lato «politico».

Echaurren è sempre stato inquieto e irrequieto, muovendosi tra pittura, illustrazione, fumetto, ceramica, copertine di dischi, pubblicità, sigle televisive, film, oltre a una cinquantina di libri (di narrativa, saggistica e arte varia), cui si aggiunge l’attività di collezionista di opere e documenti futuristi che porta avanti da decenni attraverso una fondazione creata insieme alla sua inseparabile compagna, la studiosa Claudia Salaris.

Dopo tanta saturazione e bulimia visiva, oggi Pablo realizza poco e le sue opere sono all’insegna della «sottrazione». Così come Duchamp si era celato dietro lo pseudonimo di Rrose Selavy, Paino (soprannome con cui lo chiamavano gli amici) si è inventato un alter-ego, Llaboté Danlaru, poiché, anche col passare degli anni, continua a cercare la bellezza nella strada e non nei salotti dei collezionisti.

Del resto – come hanno dimostrato il Gruppo 63 o la cultura della West Coast americana degli anni ’60, attraverso poster, grafica, musica, riviste – un’altra arte (o non-arte) è possibile.

Partiamo dal presente, ovvero dalla mostra del MART che inaugura il 7 aprile.

Non è una retrospettiva vera e propria, ma una donazione di opere su carta che abbraccia l’intero arco del mio lavoro e che segna il traguardo dei 50 anni di attività: le prime cose coerenti che ho fatto sono infatti datate 1969.

Il MART si trova a Rovereto, città natale di Depero, parliamo un attimo dei tuoi rapporti con il Futurismo.

Risale al 1977 quando una fazione a me avversa all’interno della sinistra extraparlamentare, produsse un volantino in cui c’era scritto: «Pablo tu credi di aver letto Tzara e Breton ma da te spira puzzolente l’alito di Marinetti». Per dire che le mie/nostre provocazioni erano viste come qualunquiste. All’epoca un mio carissimo amico, Roberto Palazzi, anche lui all’interno del movimento, mi disse: «Andiamo a cercare Marinetti sulle bancarelle». Da quel momento sono diventato il massimo collezionista di pubblicazioni futuriste. Il paradosso spazio temporale è che, recentemente, la Beineke Library di Yale ha acquistato molto mio materiale legato al movimento del ’77 e conserva il più grande fondo di Marinetti, quindi il cerchio si è chiuso.

Cosa ti ha insegnato il Futurismo?

Il futurismo l’ho davvero compreso con la fine del Movimento, quando mi sono trovato completamente spiazzato, poiché avevo rifiutato la mia precedente condizione scegliendo di non fare più l’artista bensì l’attivista. Ho rivissuto il medesimo clima di disillusione di cui parla in alcuni scritti Boccioni durante la prima guerra mondiale. Con i futuristi ho riscoperto che si può ricostruire l’universo anche senza distruggerlo.

Facciamo adesso un ulteriore passo indietro e parliamo dei tuoi inizi. Tu sei figlio d’arte anche se – altro paradosso – Sebastian Matta non c’entra nulla con la tua vocazione d’artista.

Non ho mai parlato di nulla con mio padre, lui non è mai venuto a una mia mostra. Il mio vero padre è stato Gianfranco Baruchello che ho cominciato a frequentare dal 1967. Baruchello mi ha spiegato e fatto conoscere tutto. Senza di lui non avrei mai intrapreso questa strada.

Ma evidentemente c’era nel tuo DNA il gene dell’arte, insomma avevi un talento naturale.

Non credo di avere un gran talento. Ammetto però che da ragazzino facevo t-shirt per gli amici disegnandoci sopra con i pennarelli, ma semmai il segno e il disegno mi derivano più dalla passione per la musica, dalle copertine dei dischi, che non dall’ammirazione dei quadri che erano in casa.

Baruchello è stato molto amico di Duchamp, tuo artista di riferimento da sempre, cui hai dedicato diversi lavori tra cui anche il tuo ultimo libro «Duchamp politique». Eppure non sei riuscito a conoscerlo di persona.

Purtroppo no, per poco. Ero ancora troppo acerbo quando morì.

In cosa consiste il libro «Duchamp politique» (stampato in poco più di 300 esemplari da Postmedia Books)?

Ho voluto mettere in luce un Duchamp anti-sistema. Il Duchamp che rifiutava scientemente di vendersi. Il Duchamp che non è mai diventato ricco ed è stato valutato assai tardi, proprio perché il mercato aveva difficoltà a gestirlo. In questo suo rifiuto della merce e del danaro c’è un messaggio ancora valido oggi, contro quel culto imperante del Corpus Christie’s e del Corpus Sotheby’s per cui il prezzo determina il valore e non viceversa. Il problema è che Duchamp è stato molto imitato sul crinale creativo ma poco su quello esistenziale, a cui io mi rifaccio costantemente.

Altro grande amico di Duchamp è stato il tuo primo gallerista, il mitico Arturo Schwarz.

Che ho conosciuto sempre grazie a Baruchello, quando andavo ancora in terza liceo e cominciavo a fare cose imitando lo stile di Gianfranco. Gianfranco prese queste mie primissime cose e le portò a Schwarz. Lui le acquistò in blocco mandandomi a dire che, una volta terminata la scuola, mi avrebbe comprato tutto ciò che gli avessi portato. Così a 19 anni me ne andai via da casa e, tra il ’69 e il ’76, ho fatto l’artista con i soldi di Schwarz, che mi organizzò mostre a Zurigo, Basilea, Berlino, New York, Philadelphia.

Che tipo era Schwarz all’epoca?

Aveva un carattere difficile, accentratore. Ma è stato fondamentale.

Lo hai più rivisto?

L’ho rivisto due mesi fa. Oggi ha 95 anni, la stessa età di Baruchello, ed è una persona molto dolce. Siamo stati insieme per due ore, mano nella mano.

Oltre a Baruchello quali altri artisti hai frequentato negli anni ’70?

Ero un ragazzino e diventai amico di persone più grandi di me, tra cui Angeli, Scialoja, Mambor, Kounellis, Twombly.

Schifano?

No, era troppo egocentrico. Ricordo che una sera mi trovai a cena con Gianfranco e Schifano che, con le mani sporche di colore, disse a Baruchello: «Tu vuoi fare l’intellettuale io voglio fare il pittore». Ecco, in quel momento ho compreso di non essere un pittore. Del resto da bambino volevo fare l’entomologo.

Poi però hai scelto di allontanarti dal sistema artistico iniziando la tua attività militante

I miei quadretti erano pieni di bandiere rosse, incontrai Adriano Sofri che mi chiese di collaborare a «Lotta continua». Poi nel 1976 ho iniziato a disegnare copertine per l’editore Savelli, la più celebre delle quali resta Porci con le ali. Al di là dell’exploit del libro, anche la mia copertina ottenne un certo successo tanto che alcuni collezionisti e curatori con cui stavo lavorando all’epoca, con un certo disappunto, mi chiesero: «ma io ho in mano dei quadri o delle illustrazioni?». Questa cosa mi diede da pensare, poiché ero convinto che fosse giusto diffondere l’arte a quante più persone possibili. Quel momento coincise infine con l’esplosione del ’77 e con la scelta di chiudere lì la mia «carriera» di artista.

Ti sei mai pentito di quella scelta così radicale?

No, affatto. Ricordo che Vincino disegnò una vignetta in cui mi sfotteva scrivendo: «Dai Pablo, non rompere le palle e chiama un gallerista!». Ma io ormai ero uscito dal giro, campavo grazie a Savelli e alle 5.000 lire al giorno del giornale. Ero anche un indiano metropolitano, con gli indiani ho realizzato il sogno di uccidere l’arte per realizzarla nella vita.

Ancora una volta una concezione futurista dell’arte…

Più situazionista direi, anche se Debord all’epoca non era visto troppo bene in Italia. I suoi scritti circolavano in edizioni pirata. Noi però usavamo la parola «deriva» e inseguivamo la psicogeografia, tipo «sabba-to» al Pantheon.

Cosa resta della stagione degli indiani metropolitani?

Lo compresero anche Eco e Calvesi: per la prima volta l’avanguardia era diventata di massa. Ho circa 100 testate di fanzine diverse in cui tutti parlavamo una lingua comune, un miscuglio di Situazionismo, dadaismo, futurismo.

Negli anni ’80 è arrivato il fumetto e hai inaugurato una nuova fase della tua ricerca estetica.

Sì, diciamo che con il collezionismo dei materiali futuristi mi sono riavvicinato all’arte e alla mia anima da ricercatore. Con la fine del movimento mi sentivo disorientato, perché crollava la convinzione di poter operare collettivamente e fuori dalla cornice delle gallerie. Accadde però che Vincenzo Mollica mi invitò a partecipare a una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra si chiamava Nuvole a go go ed esponevamo io, Altan e Andrea Pazienza. Mollica mi chiese di provare a disegnare un fumetto e io mi inventai ’Sto Picasso, in cui facevo incontrare il signor Bonaventura di Sergio Tofano (in arte STO, appunto) con Le Demoiselles d’Avignon. Ne venne fuori una dichiarazione d’intenti: fumetti e pittura possono andare a braccetto.

A proposito, che giudizio dai di Andrea Pazienza?

Per me Andrea è stato un grandissimo disegnatore ma soprattutto un eccellente scrittore. Se togli le immagini i suoi fumetti sono grandi romanzi o novelle. È lui è il vero narratore degli anni ’80, non Tondelli.

Che tipo di modelli hai avuto nel campo del fumetto?

Mi considero disneyano, anche perché non mi è mai piaciuto il fumetto antropomorfo, alla Tex Willer. A casa da bambino avevo grandi riproduzioni di Miró e ci vedevo dentro una sorta di Micky Mouse scomposto. Mi sono nutrito di una cultura visiva «alta! anche se non gli davo importanza. Sul mio letto avevo l’immagine di Guernica, che per me era un po’ come un fumetto. Detto questo ho attinto dai paesaggi di Tin Tin, ho utilizzato quella che Hergé definisce «la linea chiara» coniugandola col segno di Baruchello.

Da quel momento cosa è cambiato per te?

Ho cominciato a pubblicare su Linus, Alter alter, Frigidaire. Mi sono sentito liberato in quanto «fumettaro». Mi piaceva il rapporto diretto con il pubblico, senza il filtro delle gallerie, affrancato dalle piccole guerre del mondo dell’arte. Eppure, anche in questo caso, sono rimasto un outsider, gli addetti ai lavori non mi consideravano del club. Malgrado il mio primo libretto avesse la prefazione di Hugo Pratt. In seguito qualcuno ha scritto che, con il mio Marinetti a fumetti (uscito nel 1985 su Linus), sono stato un anticipatore della odierna graphic-novel, termine che a me non piace perché sembra che ci si vergogni di usare il termine fumetto.

Cosa ha rappresentato per te portare l’arte in carcere negli anni ’90?

Ho scoperto altri mondi e ho compreso che, anche nella sofferenza e nelle situazioni più dure ed estreme, esiste un germe di vita che vale la pena di essere vissuta. Da questa lunga esperienza –tante ore alla settimana per tanti anni – è nata la docu-fiction Piccoli ergastoli, il primo film girato dentro un penitenziario.

A volte penso che sia un vero peccato che, a parte le sigle televisive – ne hai realizzate diverse per Raidue – le tue composizioni non sono diventate cartoon. Si sarebbero prestate molto bene ad essere animate. Che rapporto hai con le immagini in movimento?

Diciamo che non sono particolarmente attrezzato in merito, anche se da trent’anni vedo un film al giorno. Le mie incursioni in campo cinematografico sono saltuarie, penso al film sui Ramones (The Holy Family, fatto con Uliano Paolozzi) o al documentario che ho ideato sugli indiani metropolitani. Trovo che nel fare film ci sia più immediatezza, è più rapido che scrivere un saggio.

Parliamo del tuo rapporto, fondamentale, con la musica. Tra le tue varie passioni c’è anche quella di collezionare bassi elettrici.

Sono cresciuto con i Beatles e i Rolling Stones, mi sono svezzato nelle serate al Piper Club, poi – dopo la stagione del Prog, che non ho mai amato, perché serioso e troppo articolato – ho scoperto l’amore per il punk, come arte totale. Del resto io dico che Marinetti was a punk poet. Peccato che la politica degli anni ’70 abbia un po’ interrotto questo tipo di espressività felice.

Ti sei mai sentito frustrato o non abbastanza valutato?

Mi piace essere inclassificabile. All’inizio degli anni 2000 quando ho cominciato a mettere ordine nel mio lavoro, mi sono preoccupato del fatto che nessuno avesse compreso e registrato la mia interdisciplinarità. Non è una questione di ego, solo la necessità che non vada disperso il senso del mio fare. Non ho forse realizzato capolavori ma penso di aver tracciato, all’interno dei vari linguaggi, un percorso umano e creativo con un suo senso. Per paradosso negli ultimi 10 anni ho fatto solo mostre in musei importanti, come la grande personale alla GNAM o al Museo Nacional de Bellas Artes di Santiago del Cile. Altre opere sono entrate nelle collezioni del museo del Novecento a Milano, del MAXXI e del Macro. Diciamo che sto avendo dei riconoscimenti «postumi», come se fossi morto (sorride).

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