P. B. Shelley, sublime presa sul reale di un materialista lucreziano
Il Meridiano Mondadori delle "Opere poetiche" di P. B. Shelley Negli anni Trenta Percy B. Shelley era considerato un poeta «tutto aria», in realtà i suoi versi sono improntati a una salda matrice «scientifica». Rileggiamolo con Francesco Rognoni
Il Meridiano Mondadori delle "Opere poetiche" di P. B. Shelley Negli anni Trenta Percy B. Shelley era considerato un poeta «tutto aria», in realtà i suoi versi sono improntati a una salda matrice «scientifica». Rileggiamolo con Francesco Rognoni
Escono nei Meridiani Mondadori le Opere poetiche di Percy Bysshe Shelley a cura di Francesco Rognoni, cui seguirà un secondo volume (Teatro, prose e lettere). Più di venti anni fa il curatore aveva già pubblicato nella «Pléiade» un’ampia scelta del poeta (Shelley, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1995), ma la presente edizione è quasi completamente nuova e costituisce un vero evento. Si tratta, come dichiara Rognoni, della «scelta più ampia dell’opera di Percy Bysshe Shelley mai pubblicata non solo in Italia, ma anche nei Paesi di lingua inglese». Questo volume contiene, oltre a un Poetical Essay fino a oggi inedito, tutta la poesia maggiore, le liriche “minori”, e una rilevantissima scelta dei frammenti. Ma non si tratta solo di ampiezza. Aprendo il libro ci si trova davanti, nella Introduzione, un vivido ritratto complessivo della meteorica vicenda dell’autore, pieno di fresche intuizioni critiche e di penetrazione psicologica. Segue una Cronologia di 50 pagine (cofirmata da Valentina Varinelli), che è forse meglio di una biografia perché contiene la quasi totalità delle sue possibili fonti, lasciando che lettere, diari, e altri documenti parlino da sé. Poi ci sono le poesie e i poemi, con una traduzione discretamente ritmica che sospinge a una lettura continuata dei testi anche più lunghi. E infine ci sono, ebbene sì, 346 pagine di Notizie sui testi e note di commento. Ma chi pensasse a una massa inerte di erudizione da scansare per non schiacciare la poesia si sbaglierebbe. L’erudizione c’è, tanto vasta quanto decantata, ma alimenta e non soffoca l’eventuale emozione. Così, nel complesso, l’edizione permette di scoprire o riscoprire il celebrato autore (che assieme a Byron e Keats è il sommo poeta della seconda generazione dei Romantici inglesi), e la sua lettura può riservare delle sorprese.
La critica più ricorrente rivolta a Shelley è di essere un poeta “etereo”, “vaporoso”, cui manca, come scriveva Leavis nel 1936, una «salda presa sul reale». Certo, erano gli anni Trenta, quando, dopo la fatwa di Eliot, la sua fortuna critica era al nadir («Per un giovane d’oggi» scriveva Edmund Wilson nel ’31 «pronunciare una parola a favore di Shelley o mettere in dubbio il valore di John Donne può costare la vita»). Ma l’immagine in sé risale a ben prima. Nel 1822, subito dopo l’annegamento (morte per acqua!) e il successivo rogo omerico della salma intrisa di vino, olio e sale sulla spiaggia di Viareggio (presente Byron, che ne reclama invano il teschio), la seconda moglie Mary (figlia del rivoluzionario Godwin e della femminista Mary Wollstonecraft, ed autrice di Frankenstein) scrive: «Tutti dicono che era uno spirito elementare imprigionato qui, ma adesso libero e felice» – un Ariele restituito all’Aria. E due anni dopo Hazlitt, recensendo i Posthumous Poems curati da Mary, scrive che Shelley «era “tutto aria”, sdegnando le limitazioni e i lacci della natura mortale» – dove il confronto è con la terragna materialità della poesia di Wordsworth.
Ma come accettare supinamente questa immagine quando ad esempio nel Prometeo liberato ci ritroviamo dentro la terra, dove i ruderi e gli emblemi di civiltà scomparse e cicli obliterati («rostri di nave … ruote di carri falcianti») si mescolano coi fossili di specie animali parimenti scomparse e obliterate («prodigiose forme ammassate in grigio annullamento … anatomie di ignote creature alate»), fino a culminare nella visione di «serpenti, catene d’ossa, attorcigliate a rocce / di ferro, o dentro ai mucchi di polvere / in cui la tortuosa forza dei loro ultimi spasmi / aveva frantumato il ferro delle rocce»?
Non è forse una presa discretamente salda sul reale questa che stringe e fonde le vicissitudini delle diverse Forme di un’unica Vita? Le immagini, che quasi tramortiscono nella loro terrificante e dunque sublime materialità, trasmettono un’emozione che basta a se stessa. Ma uno sguardo alle note non la guasta. Oltre che dell’Endymion di Keats, Shelley si sta ricordando di un testo di paleontologia di Parkinson (Organic Remains of a Former World) e della teoria di Cuvier (il grande classificatore dei mammiferi) sulle ere geologiche scandite da catastrofi. Né si tratta di un esempio isolato, perché «la scienza in Prometheus Unbound non è solo accessoria, né puramente un tema, ma qualifica la poesia, ne dichiara l’ispirazione lucreziana». Poiché il poema (o «dramma lirico») è di «indiscussa centralità» nell’opera di Shelley (che lo definisce «la mia prova più alta», anche se la intende destinata a non più di «cinque o sei persone»), vale la pena dare un’occhiata alla Prefazione, che ne espone il “programma”.
Shelley esordisce attaccando il suo modello Eschilo perché nella sua trilogia «la riconciliazione del Campione del genere umano [Prometeo] con il suo Oppressore [Giove]» gli appare debole e ossequiosa al potere. Dietro ad Eschilo han da vedersi i poeti contemporanei e le loro reazioni agli esiti della Rivoluzione francese («il tema maestro dell’epoca in cui viviamo»). Wordsworth, innanzitutto, di cui ama la poesia ma deplora la svolta reazionaria («Sembra impossibile che un uomo simile possa essere un tale poeta! Lo paragonerei solo a Simonide, l’adulatore dei tiranni siciliani, e al tempo stesso il più spontaneo e tenero dei poeti lirici»). Ma anche Byron, che nel suo orgoglioso disincanto ha abbandonato, nel Manfred, la speranza in una palingenesi – non più rivoluzionaria ma “progressista” – cui Shelley ancora crede o vuole credere (alla fine del dramma la gloria di Prometeo-Shelley sta nello «sperare finché la Speranza non crei / dalla sua stessa rovina la cosa che contempla.»)
Per questo ideale Shelley è pronto a sfidare qualsiasi Giove: «Da parte mia» dichiara «preferirei esser dannato con Platone e Bacone, che andare in Cielo con Paley e Malthus». Malthus era la bestia nera dei liberali perché negava la perfettibilità dell’uomo sostenuta da Godwin, e Paley era il teologo con le cui opere il padre aveva cercato di correggere l’ateismo del problematico figlio (espulso diciannovenne da Oxford nel 1811 per aver pubblicato The Necessity of Atheism – un pamphlet che resiste venti minuti in libreria prima di essere bruciato dai dons nel retrobottega – , nel 1816, nei rifugi del Monte Bianco, si registra per quattro volte in greco come «atheos», in due casi aggiungendo «democratico» e «filantropo»). Quanto all’altra coppia, Bacone, nell’ultima delle sue poesie (Il trionfo della vita), è colui che «costrinse / la Natura, quella proteica forma che dormiva, / a risvegliarsi e disserrare le caverne che serbavano / il tesoro dei segreti del suo regno». Platone infine è Platone – e tuttavia, come suggerisce con acume Rognoni, il Platone di Shelley reca tracce di quello di Montaigne, il quale non è un metafisico (il Platone essoterico «a vulgaribus et sacerdotibus exaltatus» di cui cui parla Pomponazzi nel XVI), ma un filosofo scettico che «quando scrive secondo il proprio pensiero, non afferma nulla con certezza» e ha «prediletto quel modo di filosofare per dialoghi a ragion veduta, per collocare più decorosamente in diverse bocche la diversità e la mutevolezza delle sue stesse idee».
Ma da dove viene la scelta della dannazione invece che del Cielo? Rognoni pensa a «una parafrasi del detto ciceroniano (Errare mehercule malo cum Platone…)», ma qui non si tratta di sbagliare con Platone pur di non aver ragione coi Pitagorici, ma di scegliere tra Inferno e Paradiso – che è invece ciò che avviene nella celebre tradizione concernente il sogno di Machiavelli morente che dai contemporanei approda a Bayle e Diderot. Nel Dictionnaire l’empio Fiorentino, vedendo tra i beati una folla di mendicanti e tra i dannati Seneca, Plutarco e Tacito, scelse i secondi; e nell’Encyclopédie «disse che preferiva andare all’inferno assieme a Socrate, Alcibiade, Cesare, Pompeo e gli altri grandi uomini dell’antichità, piuttosto che in cielo con i fondatori del cristianesimo». E Machiavelli, oltre che atheos e repubblicano, non appena viene riscoperto il manoscritto del De rerum natura si precipita a ricopiarlo di suo pugno…
Nel sottolineare «l’afflato lucreziano di Prometheus Unbound» Rognoni nota che «to pierce [penetrare] / universe» è una «rima-chiave» non solo per il testo in cui ricorre, ma per tutto il suo «mondo poetico maggiore». Acutissima osservazione, ma troppo esotericamente reticente. La penetrazione del cielo è in effetti il gesto fondamentale che in Lucrezio permette al prometeico e filantropico Epicuro di liberare la vita umana, fino ad allora « oppressa dal grave peso della religione / che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile / aspetto incombendo dall’alto sugli uomini». Con la forza della mente egli penetra le immaginarie muraglia che separavano la terra dal cielo, percorre l’universo infinito e rientra, insegnando agli uomini «quel che può nascere, / quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa / ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. / Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione / è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo». Tanto potente è questo ritratto prometeico di Epicuro che Giordano Bruno, che in Inghilterra si era fatto propagandista sia della fisica che del programma illuministico di Lucrezio, se ne avvalse per il proprio autoritratto: «Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, trapassati gli margini del mondo.» E procede ad aprire «i chiostri della verità» e denudare «la ricoperta e velata natura», proprio come il Bacone dannato di Shelley disserra «le caverne che serbavano / il tesoro dei segreti del suo regno».
Certo, il lucrezianesimo di Shelley non è che una delle sorprese del volume. Per aver accesso ad altre basta acquistarlo.
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