Ozu, l’artigiano del vedere
In questi scritti dagli anni ’30 ai ’60, il regista giapponese fa teoria dal «vivo» dei problemi di set Gli «Scritti sul cinema» di Ozu Yasujiro, editi da Donzelli, rivelano il carattere stupendamente empirico di una lezione «moderna», opposta al montaggio classico hollywoodiano
In questi scritti dagli anni ’30 ai ’60, il regista giapponese fa teoria dal «vivo» dei problemi di set Gli «Scritti sul cinema» di Ozu Yasujiro, editi da Donzelli, rivelano il carattere stupendamente empirico di una lezione «moderna», opposta al montaggio classico hollywoodiano
Yasujiro Ozu (o Ozu Yasujiro) è fuori da ogni ragionevole dubbio uno dei grandi maestri del cinema di tutti i tempi. Molti registi contemporanei si sono ispirati al suo lavoro, o ne hanno sottolineato l’importanza per la storia del cinema: ad esempio Paul Schrader che, come ricorda Dario Tomasi nella sua bella e limpida prefazione al volume degli Scritti sul cinema pubblicati da Donzelli (pp. XXIV-248, euro 26,00), è uno dei rari registi a contribuire in modo sistematico alla teoria del cinema, discutendo il lavoro di altri autori. Il volume degli scritti di Ozu raccoglie articoli, interviste, lettere e testi di altra natura, coprendo un periodo che va grosso modo dagli anni trenta agli anni sessanta del secolo scorso.
Il fatto che l’opera di Ozu possa essere considerata un modello di cinema comporta un paradosso, che può essere enunciato nella maniera seguente: nel cinema i classici non sono modelli, e i modelli non sono classici. Un regista – a patto di non limitarsi a fare film, ma volendo mettere in pratica un’idea di cinema – tende a un certo grado di consapevolezza del suo potere e dei suoi compiti, in rapporto con la realtà o con il cinema che li ha preceduti, stando almeno a un celebre adagio godardiano. Per questo autore la norma consolidata, il classico, non sarà mai presa come modello da imitare. I modelli si cercano altrove, e si cercano proprio per facilitare la trasgressione delle norme. Fin qui niente di eccezionale: questo modo di intendere la tensione dialettica tra classicità e anti-classicità fa parte della nostra tradizione artistica e letteraria. È abbastanza ovvio pensare che le opere d’arte «di genio», come direbbe Kant, rompano gli schemi pregressi, aprendo nuovi orizzonti per gli artisti e per il pubblico. Poi sono riassorbite, più o meno integralmente, in un canone.
Per il cinema le cose non stanno esattamente così. Leggere gli articoli, i brevi saggi, le interviste e le lettere di Yasujiro Ozu, avendo nella memoria magari qualche scena di un suo film, ci aiuta a capire perché. Nel cinema ai modelli si torna sempre per rompere con una classicità che ha un’identità ben precisa. È il cinema hollywoodiano, quello definito appunto «classico» in contrapposizione con il cinema «moderno». È il cinema del montaggio invisibile e della verosimiglianza assoluta.
L’affermazione forse più importante, a cui Ozu dedica ben due articoli, è che violare le norme del montaggio, la sua «grammatica», è legittimo. L’affermazione è tanto più interessante in quanto Ozu non ama presentarsi come teorico. Preferisce presentarsi come un «artigiano» del cinema: lo apprendiamo dall’introduzione degli eccellenti curatori, Franco Picollo e Hiromi Yagi, i quali hanno approntato anche un apparato critico impressionante, informandoci che tra l’altro il regista non amava scrivere. Ozu si è formato nell’industria cinematografica giapponese degli anni venti del secolo scorso. Non amava studiare da ragazzo, mentre il cinema è stato per lui un’esperienza di liberazione. Entra nella produzione cinematografica come aiuto-regista. Sarà un diverbio alla mensa a convincere i dirigenti a proporgli di presentare una sceneggiatura su cui fare un film suo. Il ragazzo ha carattere, avranno forse pensato. I testi di Ozu sono anche un modo per scoprire diversi aspetti del mondo del cinema giapponese di quegli anni – è l’epoca del film muto – e dei decenni successivi.
I registi erano all’epoca suddivisi per generi narrativi ben definiti: commedie sentimentali, film storici, drammi impegnati e così via. Se realizzava film di un certo genere, un regista non poteva occuparsi degli altri generi. Ozu usa l’immagine di un cuoco specializzato nella preparazione di un unico piatto. Gli attori a volte vengono dalla tradizione teatrale giapponese, ad esempio dal kabuki, a volte diventano attori grazie al cinema. I registi sollecitano spesso una recitazione enfatica; Ozu ricerca piuttosto la semplicità dell’espressione. Evita i primi piani per rendere un determinato sentimento: altrimenti, scrive, più aumenterà l’intensità del sentimento, più dovrò inquadrare un dettaglio minuscolo del volto! Sa che il procedimento della «illuminazione facciale» del kabuki è considerato spettacolare. Lui preferisce puntare sulla sobrietà come cifra di naturalezza. Ozu ricorre a un termine giapponese, tradotto di solito con «sensibilità estetica», che, come spiegano i curatori, rimanda alla capacità di cogliere con i sensi la forma delle cose nella loro transitorietà. Una sensibilità estetica che rinvia alla tensione non scioglibile tra immanenza e trascendenza.
Dai testi di Ozu emerge l’immagine di un artigiano che forma la sua squadra di collaboratori, che mantiene il più possibile invariata, impara a dirigere gli attori e a riconoscerne le qualità e si impadronisce dei trucchi del mestiere. Ma Ozu, tra ricordi e consigli da ‘maestro dell’arte’, fa un’affermazione dalla caratura teorica notevole. Vale a dire che un buon regista può, forse deve, violare la grammatica consolidata del montaggio. La grammatica del montaggio è un’invenzione degli studios hollywoodiani. Non si tratta di puro arbitrio: essa risponde a esigenze reali. Il problema è quando dalla Hollywood di Griffith le norme transitano in un contesto culturale diverso, ad esempio l’industria del cinema giapponese, e diventano un codice. Infrangere le regole «grammaticali» del montaggio dev’essere un modo di entrare nel merito della costruzione dell’immagine. Ozu porta un esempio concreto, che rende ancora più pregnante la sua spiegazione. Prendiamo la scena di un dialogo tra due personaggi. Se la prima inquadratura riprende il personaggio A alla sinistra dell’immagine, allora il personaggio B dovrà essere ripreso a destra nell’inquadratura successiva. In questo modo si renderà visivamente l’idea di due persone che parlano. Ozu ricorda di non aver seguito questa regola in molti suoi film. La cosa gli è stata fatta notare, alcuni colleghi gli hanno detto che all’inizio era un po’ spiazzante, ma poi ci si abituava e si smetteva di farci caso: la visione scorreva naturalmente. Per Ozu è la riprova che il suo stratagemma ha funzionato: è possibile educare la percezione dello spettatore.
Il punto è che non si tratta di puro divertissement. Se Ozu ha violato la grammatica del montaggio di un dialogo, ciò accade perché, come scrive, sono regole che non tengono in alcun conto come è costruito lo spazio di una camera in una casa tradizionale giapponese. È difficile che in quello spazio due persone si trovino a parlare faccia a faccia, magari in piedi o sedute su delle sedie, magari presso un tavolo, perché sono spazi piuttosto piccoli, quasi senza mobilio. È dunque la forma dell’ambiente, più che una grammatica astratta, a dover guidare la visione del regista. Ecco tornare l’idea secondo cui il vero criterio guida è una certa sensibilità per le cose, la capacità di coglierle in modo insieme più autentico e nuovo grazie alla mediazione della macchina da presa. Penso a una considerazione che Ozu affida a una delle lettere dal fronte della guerra sino-giapponese. Durante un attacco il soldato Ozu vede cadere i boccioli dei fiori accanto a lui, a causa delle raffiche di spari. E immagina una sequenza in cui raccontare un episodio di battaglia così: i rumori dell’artiglieria come controcanto a una pioggia di petali. Ozu non cita mai Ejzenstejn. Ma quello immaginato da Ozu per raccontare la sua esperienza di guerra ci pare un bell’esempio di montaggio verticale.
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