Poco più che trentenne Gianpiero Rosati pubblicava in una prestigiosa collana della Sansoni, frequentata tra gli altri da Praz, Migliorini, Eliade, Pasquali e Binni, la sua prima ricerca ovidiana (Narciso e Pigmalione, 1983), focalizzata sulla spettacolarità della scrittura nelle Metamorfosi. Quel promettente libro d’esordio, auspice Antonio La Penna, ebbe una certa fortuna anche fuori dall’accademia ed è stato riedito nel 2016 presso la Normale di Pisa – lì dove Rosati ha infine coronato (e da poco concluso) il suo cursus honorum: nei quasi quarant’anni intercorsi egli ha dato alla comunità scientifica, per limitarci a Ovidio, commenti ed edizioni critiche divenute imprescindibili. E ora c’è finalmente un nuovo libro, che – parole sue – rifonde in un disegno unitario una serie di lavori pubblicati perlopiù nel corso dell’ultimo decennio: Ovidio e il teatro del piacere Il corpo, lo sguardo, il desiderio (Carocci editore «Frecce», pp. 142, € 15,00).
Sia il titolo, che batte ancora sulla dimensione spettacolare, sia il sottotitolo, sia l’illustrazione di copertina – la sensuale Io del Correggio posseduta da Giove-nuvola – sembrerebbero in grado di attirare l’interesse anche dei non classicisti: Ovidio nel nuovo secolo ne ha sedotti molti. A questi gioverà sapere, ad esempio, che ogni brano in latino ha sempre il corrispettivo italiano (con scampoli delle Metamorfosi tradotte a suo tempo dalla compianta Ludovica Koch, la cui incursione nella cittadella della Fondazione Valla disorientò i tradizionalisti ed entusiasmò Pietro Citati che l’aveva incoraggiata all’impresa).
Per l’occasione Rosati oltre a rielaborare, come detto, i lavori qui confluiti, ha sottoposto i titoli originali a un giro di vite che li armonizza tra di loro e li radicalizza in senso critico: «L’oggetto del desiderio e l’invenzione del corpo-feticcio»; «(…) La cosmesi e il corpo semiotizzato» (che sembra alludere alla lezione di Lotman); «Il desiderio mimetico, o amare come un dio» e così via. Si avverte cioè in questi saggi, che intendono disegnare un ‘discorso ovidiano del desiderio’, il cambio di paradigma culturale impresso negli anni settanta dai dirompenti seminari di Foucault e Barthes, ma non solo: nell’analisi minuta dei testi anche i termini e i concetti istituzionali del vocabolario erotico adesso guizzano come risemantizzati grazie all’allargamento dello spettro ermeneutico: da Girard a Lacan, da Peter Brooks (Body Work) a Victor Stoichita (simulacri, effetto Pigmalione) e Agamben (ninfe), diverse teorie del desiderio vengono convocate a illuminare la facies sorprendentemente moderna del ‘teatro’ ovidiano (e questo vale anche per altri autori – Petronio, il romanzo greco-latino – ricodificati a loro volta da un nuovo impeto critico): nel primo capitolo, ad esempio, Corinna arriva nella penombra del crepuscolo «velata di una tunica slacciata» (Amores, I, 5) e scatena nel lettore l’attesa degli sviluppi; invece il meccanismo mimetico teorizzato da Girard ci aiuta a rileggere l’innamoramento di Paride per Elena (tutti parlavano della sua bellezza…); mentre la proustiana «insensata mania del possesso» dà luogo a una frizione tra tempo del racconto e tempo del desiderio nel drammatico inseguimento di Apollo a Dafne. Al termine di ogni indagine, la cui strumentazione è reperibile nelle note finali (mai verbose), l’autore delle Metamorfosi esce dalla cintola in su come disinibito anticipatore (proprio un ironico rovesciamento dell’influente condanna romantica), per nulla soffocato dai raggi x della letteratura allotria: che peraltro Rosati governa con le stesse doti di naturalezza e versatilità che da giovane gli consentirono di mettere il poema ovidiano sotto la lente di Genette senza bruciarlo.
In effetti questo libro distilla con eleganza l’onda di una rinascita che si può far risalire alla fine degli anni settanta: mentre in Germania il Bömer (più dotto che acuto) attendeva a completare il primo monumentale commento moderno alle Metamorfosi, una agguerrita generazione di latinisti italiani (soprattutto a Pisa), inglesi e americani, prese a leggere tutta l’opera del poeta augusteo in una prospettiva nuova – intertestuale e, in qualche caso, culturologica –, finalmente in grado di scrostarne l’archeologia critica («retorico, insincero, manierista!»): con la stessa foga investigativa di Cotta – il protagonista del romanzo di Ransmayr – nella casa vuota di Nasone a Tomi.
‘Teatro del piacere’ dunque, e a teatro c’è il pubblico. Scopriamo così ancora una volta l’abilità di Ovidio nell’orientare la ‘costruzione’ del proprio lettore come lettore-spettatore, invitato cioè a entrare nella camera degli specchi assumendo la posizione di chi guarda qualcuno che guarda. Un lettore per forza di cose smaliziato, non tanto nell’arte di amare quanto soprattutto nell’arte di leggere: doppi giochi, mise en abyme, esibizione dei testi nei quali i personaggi ‘hanno già vissuto’, sovversione dei canoni tradizionali, contaminazione dei generi, ecc. A questo proposito Rosati torna a occuparsi in pagine molto convincenti dell’ossessione di Ovidio per Virgilio, il modello «continuamente cercato» sino al punto di riscriverlo ribaltando le convenzioni dell’epica e dell’establishment augusteo: l’ambizioso poema ovidiano praticherà cioè il «principio del dispendio» in luogo dell’economia raccomandata da Orazio, sostituendo così il télos della Storia ufficiale (appunto la Roma di Augusto) con la teoria dell’eterno cambiamento che, di fatto, espelle dall’orizzonte la morte (l’«omnia mutantur, nil interit» enunciato da Pitagora nel XV libro).
Ma in queste pagine brilla soprattutto il codificatore dell’eros che Ovidio – con buona pace del princeps moralista – è stato. Poiché qui non è possibile dar conto di tutte le facce della sua ‘retorica del corpo’ (secondo la quale, per esempio, attirare lo sguardo non è solo un gesto di seduzione ma un’affermazione culturale), mi limiterò a una veloce ellissi a contrasto: un fuoco, l’acconciatura femminile; l’altro i Padri della Chiesa.
Non c’è bisogno di ricordare che anche nell’antichità l’atto di pettinarsi – al quale risalirebbe fra l’altro la catena etimologica pettine/cosmo/cosmetica – ha nutrito un folto immaginario letterario e iconografico al cui vertice sta probabilmente Venere/Afrodite Anadiomene che si strizza le lunghe chiome bagnate (viceversa Diana, dea della caccia e simbolo di castità, non si cura affatto delle proprie, le lascia in disordine legandole in modo sbrigativo). Se nell’Odissea i capelli contrassegnano la bellezza di due seduttrici come Calipso e Circe, in un episodio delle Metamorfosi vediamo il selvaggio Ciclope, innamorato della ninfa Galatea, iniziato da Ovidio alla cosmetica ‘da donna’: «…ora ti premuri di piacerle, / ora ti pettini i rigidi capelli col rastrello, o Polifemo» (rispetto a Teocrito, una trasformazione quasi umoristica). Nell’Ars amatoria (3, 133-168) c’è un divertente passo sui vari tipi di acconciatura in relazione alla forma del viso, che il magister sciorina con maliziosa affettazione: «Un ovale allungato richiede una scriminatura senza orpelli: / con la chioma così acconcia era Laodamia. / Un viso rotondo richiede sia lasciato al sommo della fronte / un minuscolo nodo di capelli, in modo che si vedano le orecchie / (…) all’una stanno bene capelli vaporosi mollemente cascanti, / l’altra dovrà cingersi il capo coi capelli raccolti», e così via. Nelle diverse sceneggiature ovidiane la messa in scena del corpo femminile – del quale i capelli, situati come sono al confine tra natura e cultura, costituiscono una componente decisiva – prevede che lo «spettacolo della pettinatura» sia l’unica fase della toilette a cui sono ammessi anche i maschi, al preciso scopo di accenderne lo «sguardo desiderante»: l’Ars raccomanda infatti alle ragazze di non farsi mai vedere di mattina senza il trucco e i capelli fatti; a contrario, nella strategia curativa dei Remedia amoris si consiglia l’amante di sorprendere la puella prima che si sia applicata sul viso i suoi repellenti «veleni» (tema, questo, già lucreziano).
Il saggio conclusivo della raccolta allarga antropologicamente il discorso alla consuetudine, diffusa nell’élite romana, di arredare l’abitazione con tavolette erotiche. Rosati prende in esame diverse testimonianze letterarie sulla scorta di un’altra ‘figura’ coniata da René Girard, il «meccanismo di mediazione»: il giovane Clitofonte che nel romanzo di Achille Tazio si assolve perché, in fondo, «anche Apollo si innamora»; o Encolpio pretendente di Gitone, che dopo aver osservato nella pinacoteca i quadri raffiguranti gli amori divini se ne esce con la frase «ergo amor etiam deos tangit» («dunque l’amore tocca anche gli dèi», Satyricon, 83). L’esempio del dio cancella il senso di colpa del mortale.
È esattamente questo il bersaglio polemico degli apologisti cristiani, che pur impregnati di classici antichi accusavano la mitologia pagana di essere una scuola di immoralità: non solo cattivo modello, ma incentivo. Le storie d’amore, lo si apprende anche da un celeberrimo passo scolastico, sono galeotte e alimentano il desiderio carnale. Quanto alla «funzione contagiosa delle immagini», nessuno ne ha compreso gli effetti meglio di sant’Agostino in quel memorabile brano delle Confessioni in cui riesamina – con una coscienza semiotica già ‘alla Peirce’ – il suo tirocinio di avido lettore dell’Eunuchus di Terenzio. A casa della prostituta Taide, il giovane Cherea osserva alla parete Giove che si trasforma in pioggia d’oro per sedurre Danae: la visione lo eccita e gli fa deporre ogni scrupolo. Anche in questo caso l’interpretazione di Correggio, ora alla Galleria Borghese, fa letteratura (ma non c’è più alcun bisogno della tendina verde).