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Out of the Closet, in ritirata

Out of the Closet, in ritirata

Genere Il cesso come un set, un teatro politico della sessualità

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 agosto 2020

Sono appese alle porte di ogni bagno del mondo.
L’elemento comune a tutte è quello di trovarsi in uno spazio pubblico, cioè di essere lì per essere riconosciute e per far riconoscere pubblicamente chi ci entrerà.
Per dare indicazioni e con esse identità, a chi ha bisogno, pubblicamente, di pisciare. Pubblicamente, cioè, come se fosse un dato naturale sapere quale porta aprire, quale soglia varcare, e che lì, davanti, fuori da quelle porte si sapesse scegliere, anzi, si dovesse ovviamente scegliere, ciascuno/a da che parte andare, cioè, stare.

Sono davanti a queste due porte, e mi ritrovo davanti a due generi, al binarismo di genere con tutti i codici semiotico-tecnici della femminilità e della maschilità che sembrano volerci tutti maschi e femmine – naturalmente in piedi gli uni, naturalmente sedute le altre, a dare conto dei nostri modi di pisciare, e quindi di vederci, di volerci, di vivere. Inequivocabilmente, dentro la stretta biologica della binarietà, con la sua dose millenaria di stereotipi, di malcelata misoginia, di forme più o meno velate di sessismo, abbiamo normativizzato anche il fare pipì.
Grazie a una presunta ludica innocenza della narrazione.

Il linguaggio visivo e verbale di certe insegne non è neutro o innocente, è quello dell’immaginario eteropatriarcale, l’armamentario di codici che immobilizza i corpi in scelte e orientamenti sessuali definitivi, in processi identitari obbligati, manifestazioni codificate di come devono e non possono essere, di cosa devono fare di sé. Non stupisce che fasciatoi e carrozzine stiano di solito dietro la porta delle donne a dirci che il lavoro di cura è loro, e pure la condivisione dello spazio con chi, si sa, in quanto disabile si pensa asessuato.

La narrazione è quella che si perpetua mettendo in scena finzioni politiche che recitiamo o ci chiedono di recitare pubblicamente, ogni giorno. Il nostro è un repertorio di cliché, perfino andando al cesso.
Il cesso, che luogo straordinariamente carico di segni. Dietro quella porta accade di tutto: ci si nasconde, ci si spia, ci si confessa, ci si masturba, si fa sesso, ci si fa, si litiga, si ride, si vomita, ci si traveste, ci si scambia di tutto, umori e liquidi. Il luogo più pubblico e allo stesso tempo più privato e intimo della terra.

Un luogo del bisogno e contemporaneamente del desiderio. Lo spazio dove è possibile agire libertà ma anche oppressione, piacere, violenza, privilegio, aggressività.
Un luogo narrativo dove già da fuori la soglia patriarcale prevede qualcosa di giusto o di sbagliato. Binario non è solo il modo di pisciare, ma anche il giudizio che se ne dà. La narrazione è giudicante. Le due porte sono soglie disciplinanti. Si è fuori dalle due, si è dentro una delle due. Stare tra o in entrambe, né maschio né femmina, tutt’e due, un giorno una un giorno l’altro, non si può. Si entra per bisogno si lascia fuori il desiderio. Il desiderio di libertà sessuale. Si allude, si ridicolizza, si mortifica, si generalizza, genderizza e sessualizza, davanti a quelle due porte, la nostra libertà.

Il cesso come un set, un teatro politico della sessualità. Lo spettacolo delle nostre rappresentazioni, dei nostri desideri, della nostra autonomia – da non confondersi con la nostra anatomia. Dove si può essere come ci pare, e dove per questo si può venire puniti, insultate, offese, picchiati se non si tace di fronte all’arroganza eteronormativa. Succede spesso, quando ci viene detto, scusi, ha sbagliato bagno, o quando senza scuse, si pensa di dover cacciare qualcuno perché non viene iscritto nel copione di codici di quell’unico bagno.

È successo a molt* di noi, è successo alla performer artista Silvia Calderoni, insultata, presa a spintoni perché si era permessa di entrare nel bagno delle donne, scambiata per un bio-maschio. Ecco, un maschio nel bagno delle femmine. Essere scambiata per un maschio potrebbe anche non disturbare granché, così come doversi difendere affermando di essere donna per salvarsi la vita – in effetti, di solito, come donne si viene uccise. Ma l’entrata in quel cesso è un’intrusione in un territorio straniero e come tale nemico (sic).

Quel territorio è il corpo, la libertà di farne ciò che si vuole per essere chi si vuole. Quel territorio è il desiderio, non il bisogno, di essere, diventare, quindi pure di pisciare, come si vuole. Pisciare è pisciare nel proprio territorio, o in quello altrui. Entrare nel bagno sbagliato è come entrare in un campo nemico, si minaccia l’altro, si invade il territorio, cioè il corpo, i bisogni, i piaceri, i desideri.
Poi, certo, ci sarebbe da dire qualcosa su come mai un maschio dentro un bagno dove si presume debbano pisciare le donne faccia paura. Fa paura perché il pensiero eterocentrico non ha mai smesso di usare le sue tecniche di violenza, una delle quali è da sempre la paura. In un bagno, dove magari non c’è neanche la chiave, dove in certi paesi non c’è neanche un vero e proprio bagno, la prima sensazione è la vulnerabilità, la penetrabilità, mentre sei solo seduta o ti tieni sollevata a gambe aperte sul cesso.

Forse perché per secoli la narrazione è stata dettata dalla cultura dello stupro, della seduzione come estetica della dominazione, bocche tette e tacchi a spillo ad aprire alle donne la porta delle donne, muscoli peli erezionalità ad aprire agli uomini la loro porta.

Allora, stare davanti a quelle due porte che raramente diventano tre o una sola aperta alle molteplicità, è performativo, e, come tale, un atto politico, di deviazione e di resistenza: si negozia un potere, si sfida il potere che altri decidano per noi, il potere che abbiamo di decidere per noi.

Silvia Calderoni quando tre anni fa le è successo di entrare nel bagno «sbagliato», che per quella volta aveva scelto per lei, suggeriva di stare davanti a quelle due porte avendo in mano un pennarello indelebile per disegnare sirene e unicorni, fumetti, per scriverci sopra qualcosa che cancelli stereotipi, sovverta con una scrittura desiderante il linguaggio, per disoccupare e decolonizzare quel territorio che fa così paura, quel campo di esplorazione e desiderio che sono i corpi e che siamo.

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