Oum Kulthum, la stella delle notti arabe
Giornate Autori A Venezia, ci sarà anche l'ultimo film dell'artista e cineasta iraniana Shirn Neshat, dedicato alla figura della grande cantante egiziana. Non un documentario biografico, ma un lavoro di fiction che mette a confronto Mitra, regista in difficoltà, e l'esistenza della star
Giornate Autori A Venezia, ci sarà anche l'ultimo film dell'artista e cineasta iraniana Shirn Neshat, dedicato alla figura della grande cantante egiziana. Non un documentario biografico, ma un lavoro di fiction che mette a confronto Mitra, regista in difficoltà, e l'esistenza della star
L’artista e regista iraniana Shirin Neshat, già vincitrice del Leone d’argento con «Donne senza uomini» nel 2009, torna alla Mostra di Venezia con il suo ultimo film «Looking for Oum Kulthum» (per le Giornate degli Autori), dopo aver lavorato alla sceneggiatura insieme a Shoja Azari, suo compagno e consueto partner di scrittura, e a Jean-Claude Carrière. Voluto dalla Between Art Film di Beatrice Bulgari, la casa di produzione che esplora e infrange i confini tra cinema e arte contemporanea (presente al festival anche con un’altra opera ibrida, «Controfigura» di Rä di Martino, per la sezione «Il Cinema nel giardino»), «Looking for Oum Kulthum» snoda la sua storia in uno sdoppiamento continuo e racconta il tentativo di una regista iraniana in esilio di portare sullo schermo la vita e l’opera della leggendaria cantante egiziana Oum Kulthum. Lei è Mitra, artista ambiziosa, moglie e madre di 40 anni, che cerca di rintracciare la forza di una donna, proveniente da una società patriarcale e conservatrice, che ha preso il volo, in maniera indipendente. Durante le riprese, però, Mitra avrà cadute e risalite, troppe le difficoltà nel catturare l’essenza della stella panaraba. Sarà Ghada, attrice e cantante che deve interpretare la parte di Oum Kulthum, ad aiutarla e a portarla fuori dall’impasse.
Abbiamo raccolto la testimonianza di Shirin Neshat, che ha raccontato ad «Alias» la genesi del suo film.
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Oggi posso dire che sono in grado di apprezzare una vasta gamma di musica che va dalle sonorità occidentali, passando per quella mediorientale fino alla «world». Ma devo confessare che la musica è sempre stata al centro del mio lavoro, sia quando realizzavo video sia quando ho iniziato con il cinema. Sono sempre stata legata alla musica perché la considero una espressione delle emozioni umane, è una forma d’arte che non ha bisogno di nessuna traduzione e viene prodotta e sperimentata nelle proprie viscere. Così nelle mie opere artistiche, che spesso hanno come perno le realtà socio-politiche delle culture islamiche, in particolare quelle del mio paese, l’Iran, utilizzo la musica per neutralizzare il realismo dei concetti e delle narrazioni, permettendo al pubblico internazionale di guardare con gli occhi dei loro sentimenti e non di analizzare ciò che vedono in una forma solo razionale.
CLASSICI PERSIANI
Nei miei primi anni di vita in Iran, a casa circolava molta musica persiana classica, i miei genitori la ascoltavano quotidianamente. Eppure a quel tempo a me non piaceva: amavo i cantanti pop iraniani, quelli della mia generazione, i cui ritmi erano suggestivi, totalmente virati sull’emotività, pervasi comunque di un contenuto politico.
Ancora adesso alcune di queste canzoni sono rimaste famose come ballate rivoluzionarie e i loro testi sono diventati pezzi storici, per i giovani che hanno partecipato alla Rivoluzione islamica del 1979.
Oum Kulthum mi ha stregata naturalmente per la sua musica, ma anche perché è stata la più idolatrata, popolare e iconica artista del Medioriente nel XX secolo, pur essendo una donna. Gran parte del mio lavoro ha come protagoniste le musulmane, e così la sua storia – quella di una ragazzina allevata da un contadino e diventata una grande stella, un simbolo nazionale dell’Egitto, mi ha affascinata.
È stato impressionante vedere come una donna, vissuta tra il 1900 e il 1975, all’interno di una società fortemente religiosa, dominata dagli uomini, abbia potuto arrivare a un livello che nessun musicista di sesso maschile era mai riuscito a raggiungere. Quando morì, quattro milioni di persone parteciparono al suo funerale per le strade del Cairo: è stato il secondo più grande funerale nella storia dell’Egitto, dopo quello del presidente Nasser.
In modo piuttosto egoistico, ho ritenuto che la sua fosse una storia interessante. Meritava di ricevere l’attenzione del pubblico occidentale, dato che la maggior parte delle persone è generalmente ignorante riguardo la ricca, complessa e sofisticata storia della cultura araba. Anzi, negli ultimi tempi sono in molti a ridurre tutti in fanatici religiosi. Inoltre, a mio parere, Oum Kulthum è stata un vero fenomeno: anche in Occidente è difficile trovare un esempio come il suo. La maggior parte delle interpreti occidentali hanno vissuto esistenze che si sono concluse in modo tragico, con suicidi, abusi di droga, o costellate da rapporti violenti con gli uomini. Basti pensare a figure come Edit Piaf e Billie Holiday. Invece, la popolarità di Oum Kulthum crebbe addirittura durante la sua vecchiaia e lei morì, rimanendo all’altezza della sua carriera.
Credo dunque che Oum Kulthum abbia rappresentato un simbolo importante per tutte le donne arabe, principalmente per il suo essere stata nazionalista, per aver aiutato il suo paese durante le guerre e le difficoltà economiche, ma anche per la potenza della musica e per il fatto che sia riuscita a spostare tanti milioni attraverso la sua voce. La sua eredità, oggi, è ancora più estesa del passato: è amata dalle donne e dagli uomini di tutto il Medioriente, si va da Israele, all’Arabia Saudita, fino al Marocco e all’Iran.
Certo, le biografie non sono un genere facile da affrontare. Nel mio caso, poi, è vero più che mai: il mio soggetto era egiziano e io sono iraniana, non parlo l’arabo. Ancora più importante da sottolineare è il suo ruolo: Oum Kulthum è veramente una figura sacra nel suo paese. Il mio è stato un gesto estremamente coraggioso: da non araba, ho tentato di fare un film sulla sua figura. Eppure molti amici egiziani mi hanno sostenuta fin dalla prima ora, hanno appoggiato l’idea e hanno sempre detto che sicuramente sarebbe stato meglio se quel film l’avesse diretto qualcuno non nato in Egitto. Come me.
IL CAIRO CHE CAMBIA
Ciononostante, ci sono voluti quasi sei anni per sviluppare il progetto, trovare produttori e finanziamenti. Quando finalmente siamo riusciti a girare il film, abbiamo dovuto farlo non in Egitto, ma a Casablanca, in Marocco, a causa della situazione politica del paese. La nostra troupe però era meravigliosamente internazionale, eravamo un team di arabi, iraniani, europei e marocchini. Abbiamo cercato di ricreare la città del Cairo negli anni che vanno dal 1900 al 1975, mantenendo una vigilanza speciale nei riguardi della musica, e a seconda delle epoche, seguendo pure i cambiamenti del costume, i capelli, il trucco di Oum Kulthum. Per ottenere questo risultato, abbiamo condotto moltissime ricerche, affinché il film potesse delinearsi attraverso una sua autenticità storica. Quello che vorrei assicurare, comunque, è che il mio film è anche un prodotto artistico.
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