Cultura

Ötzi, la mutabilità della forma

Ötzi, la mutabilità della formaUna visitatrice guarda Ötzi © Museo archeologico dell’Alto Adige (foto Ochsenreiter)

Metamorfosi /3 La seconda vita di un personaggio che ricorda il protagonista del «Dialogo della Natura e di un Islandese». Fu strappato alla vita all’inizio dell’estate, come notifica l’analisi delle foglie d’acero e dei pollini identificati nei recipienti in corteccia di betulla che portava con sé

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 15 agosto 2024

A Innsbruck il processo di decomposizione era appena iniziato, quando Konrad Spindler fu il primo a cogliere – di Ötzi – l’antichità. Quel giorno, cinque dopo il suo ritrovamento, debuttava Nevermind dei Nirvana. La storia della musica stava cambiando, rumorosamente. Sulle Alpi, il giovedì precedente, avrebbe tuttavia insistito il silenzio, se non fosse stato per lo scricchiolio del ghiaccio in scioglimento e per i passi in avanti impressi da due turisti tedeschi verso la preistoria.
I metri di altitudine erano oltre 3200 sopra la Ötztal. Tal, in tedesco valle, come in Neandertal. Un toponimo determinante nella tassonomia dell’evoluzione umana, riemerso a causa del surriscaldamento globale, con lo scirocco, in un luogo liminare per costituzione: un ghiacciaio di confine, in Alto Adige ma a 92 metri dall’Austria.
Era il 19 settembre 1991. Erika e Helmut Simon notarono un busto semicongelato – la posa di Farinata degli Uberti; lo sguardo, però, in basso – e telefonarono al gestore del rifugio del Similaun. Pensavano fosse un alpinista disperso. Fu portato a Innsbruck in carro funebre. Fu visto da Spindler.

COMINCIA COSÌ la seconda vita di un personaggio che ricorda il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese: un uomo in fuga dal suo carico di domande esistenziali e che, giunto infine ai ragionamenti sempre elusi, viene sbranato da due leoni; quindi «diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città».
È Bolzano quella di Ötzi, conservato da un ghiacciaio per cinquemilatrecento anni durante i quali i suoi tessuti hanno sviluppato una stabilità che non può essere alterata. Perciò lo osserviamo, nel Museo archeologico dell’Alto Adige che lo accoglie dal 1998, attraverso il filtro di una cella frigorifera che riproduce le condizioni del ghiacciaio: umidità del 99%, temperatura di -6°C.
Ötzi, allora un uomo, è ormai un reperto che deve offrire informazioni agli antropologi, pretesti per inseguire innovazioni nella ricerca scientifica: è la prima mummia i cui globuli rossi hanno potuto essere analizzati e la prima di cui si è potuto ricostruire il patrimonio genetico completo, tramite un metodo di sequenziamento in seguito introdotto nella prassi comune. Fu strappato improvvisamente alla vita all’inizio dell’estate, come notifica l’analisi delle foglie d’acero e dei pollini identificati nei recipienti in corteccia di betulla che portava con sé, circa nel 3300 a. C., nell’Età del rame, alla fine del Neolitico. Ma, come canta la mitologia greca, non può subire una metamorfosi di ritorno. L’immutabilità della forma è il prezzo della sua immortalità. In poche parole, non può seccarsi: per questo è regolarmente nebulizzato con acqua sterilizzata.
«In Ötzi si riuniscono tutte le domande che si pone un medico legale, assieme a quelle caratteristiche della ricerca paleopatologica – dice il medico forense Oliver Peschel dell’Istituto di medicina legale di Monaco, incaricato della conservazione della mummia dall’agosto 2016 –. Da un lato rappresenta il caso criminale di una delle più antiche vittime di omicidio conosciute, dall’altro pone altre questioni interessanti: tutte le malattie che si possono studiare e le conclusioni che si possono trarre circa il modo in cui le persone vivevano oltre cinquemila anni fa».

«PER ESEMPIO è stato rintracciato l’Helicobacter pylori, che è un batterio dello stomaco – spiega Frank Rühli, direttore dell’Istituto di medicina evoluzionistica di Zurigo –. Abbiamo bisogno di fare ricerca, ma sappiamo di trovarci di fronte a una persona deceduta e di questo dobbiamo essere consapevoli. Non si tratta di uno scheletro o di parti di una mummia; qui c’è un corpo intero e dobbiamo maneggiarlo con rispetto».
Temi frequentati con naturalezza dalla museologia anglosassone, discussi con qualche imbarazzo in Italia: la terra dei crani delinquenziali collezionati da Lombroso, dei calchi di Pompei, della salma auspicabilmente incorrotta di Padre Pio. Ne parla un recente saggio a cura di Maria Giovanna Belcastro, Giorgio Manzi e Jacopo Moggi Cecchi: Quel che resta. Scheletri e altri resti umani come beni culturali (Il Mulino, pp. 192, euro 19). «La morte è deritualizzata quando un resto diventa reperto, ma si tratta pur sempre di resti di umanità e non semplici residui organici – si legge nelle sue pagine –. Anche se subiscono la ’reificazione’ in qualcosa di diverso da ciò che sono stati in origine, finendo in qualche modo sotto quel biocontrollo di cui parlava Foucault. Come attribuire loro di nuovo un valore condiviso?».

Piramide commemorativa © Museo archeologico dell’Alto Adige foto di Dario Frasson

DARE UNA RISPOSTA a quest’interrogativo è forse il più delicato tra i compiti del museo di Bolzano, centro educativo e di ricerca sul territorio che a Ötzi sta restituendo una biografia. Aveva 45 anni, 0 positivo il suo gruppo sanguigno, scura la carnagione. Avrebbe calzato scarpe numero 38. Era alto 1,60 m e pesava 50 kg: diremmo da tali muti dati che fosse in forma, se non avessimo riscontrato tracce di arteriosclerosi e di batteri in grado di causare ulcere, gastriti, cancro allo stomaco. I suoi polmoni erano anneriti dalla fuliggine, probabilmente perché trascorreva molte ore vicino al fuoco.
«In diversi punti del corpo Ötzi mostra segni di usura – aggiunge la guida Andrea Dal Prà –. Non può essere un caso se proprio in loro corrispondenza sono presenti sessantuno tatuaggi di croci e linee (analoghe a quelle ancora praticate nell’agopuntura) ottenuti con piccole incisioni ricoperte da polveri naturali».
Ciò considerato, e tornando al cold case, anche se Ötzi fu capace di superare duemila metri di dislivello in otto ore, con quindici chili di attrezzatura, presumibilmente non scelse di affrontare la scalata a cuor leggero, ma spinto da una forte motivazione. Lo spirito di sopravvivenza, per esempio. L’ipotesi dell’incidente fu definitivamente esclusa nel 2001, quando una radiografia evidenziò una punta di freccia in selce conficcata nella spalla sinistra e compatibile con un foro d’entrata di due centimetri nella schiena.

COLPITO, Ötzi cadde e sbatté violentemente la testa. Morì dissanguato, poi scese la neve. Aveva mangiato da poco: cereali, carne di cervo e stambecco. Affermare che fosse in fuga non è un azzardo: qualche giorno prima, in un corpo a corpo, era stato ferito alla mano destra.
Certamente sapeva cacciare. L’ascia di rame in suo possesso era un oggetto di valore, potenziale indice di uno status sociale elevato, come il cappello in pelle di orso. Eppure a lungo nessuno si prese cura di lui. L’autosufficienza doveva essere una necessità di cui fare virtù. Fu lui stesso a rammendare, con cuciture in tendini animali, fili d’erba e rafia, i capi che indossava. E si stava intagliando un arco con un bastone in legno di tasso: per farlo funzionare, sarebbe bastato levigarlo e tendere una corda.

ERA UN REIETTO? Non lo sapremo mai. Il campo d’azione della scienza, esattamente perché tale, ha dei limiti che appena la poesia può varcare, spalancando una Spoon River su quel che resta, invertendo con la grazia di una cesura la direzione della metamorfosi.
«Vorrei salvarti in tenda / Regalarti un po’ di caldo / E tè e biscotti», scrive così a Ötzi il poeta Franco Buffoni, guardando all’infanzia sua sovrastata dal Monte Rosa e all’omosessualità. «Dicono che forse eri bandito, / E a Monaco si lavora / Sui parassiti che ti portavi addosso, / E che nel retto ritenevi sperma … Ti rivedo col triangolo rosa / Dietro il filo spinato».
Buffoni compose il testo «di getto una mattina in treno, dopo aver letto su una rivista americana che tracce di sperma erano state rinvenute nel retto della mummia», mentre fuori dal finestrino scorreva Montecassino, monumento eterno alla violenza. La notizia era nata da un errore di traduzione: samen in tedesco indica sia lo sperma che un seme di pianta. «Ma il click della composizione ormai aveva prodotto il suo risultato».

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