Fonderia Sommer, statuetta di toro, inizi XX secolo, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

La fascinazione verso Napoli e il suo genio artistico, da qualche tempo a questa parte, sta godendo di una rinnovata fortuna. Una intensa sovraesposizione massmediatica ha fatto sì che il mito della città partenopea – da sempre parte integrante dell’identità italiana – potesse diffondersi a diversi livelli e latitudini culturali. La variegata e contraddittoria visualità napoletana ha infatti plasmato sia un versante dell’odierno intrattenimento popolare – serie televisive, realities – sia un certo cinema d’autore di registi come Paolo Sorrentino (si pensi al successo di È stata la mano di Dio e anche all’imminente Parthenope, in concorso all’attuale festival di Cannes)
Nell’endemico, e purtroppo trasversale, sfavore storiografico che incombe su tutto l’Ottocento artistico italiano, l’area napoletana – assieme alla Toscana dei macchiaioli – risulta però bene indagata. Certamente rimangono dei segmenti da approfondire, specie se si tiene conto che Napoli riuscì ad attrarre alcuni dei migliori talenti dal meridione (Giuseppe De Nittis, Francesco Paolo Michetti) e non solo (il catalano Mariano Fortuny). In ogni caso molto è stato fatto, soprattutto a seguito di pionieristiche manifestazioni espositive come Civiltà dell’Ottocento (1997-’98).
Numerose e recenti sono state le retrospettive che, con tagli e prospettive eterogenee, hanno messo al centro l’ex capitale del regno borbonico. In Francia si è poi costituito una sorta di asse Napoli-Parigi che, oltre ad aver portato alla non scontata presentazione dell’opera di Vincenzo Gemito presso il Petit Palais (2019), ha promosso il temporaneo invio al Louvre di alcuni capolavori provenienti da Capodimonte per il progetto – curato tra gli altri da Sylvain Bellenger – Naples à Paris (2023-’24).
E proprio Bellenger – fino al 2023 a capo del Museo e Real Bosco di Capodimonte – è l’ordinatore, con il contributo di Jean-Loup Champion, Carmine Romano e Isabella Valente, di Napoli Ottocento (Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 16 giugno, catalogo Electa). Il sottotitolo dell’esposizione – Dal sublime alla materia – enuncia subito i poli concettuali entro cui si è voluto inquadrare il proteiforme universo estetico napoletano sviluppatosi durante il XIX secolo.
L’incipit del discorso espositivo viene infatti individuato in quella pittura di paesaggio del tardo Settecento che, nutrita di speculazioni sull’infinito, tendeva a cogliere l’indomabilità di un territorio segnato dalla presenza, al contempo minacciosa e vagheggiata, del Vesuvio. Tra l’altro, il crescente apprezzamento accordato al paesaggismo contribuì a favorire l’internazionalismo della capitale borbonica; e Napoli, anche in quanto metropoli portuale, fu davvero un crocevia di artisti. Eclatante – e ben documentato in mostra con prestiti prestigiosi – il caso di Edgar Degas che, avendo soggiornato nel capoluogo campano in diverse occasioni tra il 1840 e il 1907, ebbe la possibilità di venire in contatto con i più attuali rivolgimenti dell’arte locale. Peccato, in questo senso, non aver fatto cenno – neanche nel catalogo denso di contributi interessanti – al dipinto Salle de billard au Ménil-Hubert (1892) in cui l’artista francese, verosimilmente in segno di stima, scelse di inserire la raffigurazione di un paesaggio con animali di Giuseppe Palizzi.
Nel lungo XIX secolo Napoli riuscì a esprimere una raffinata, e competitiva, cultura figurativa che rifletteva le sue molteplici vocazioni. Le vestigia riemerse dalle vicine Pompei ed Ercolano continuarono a vincolare la città al suo passato e, come documentato in una delle sezioni più riuscite della mostra, sollecitarono una serie di iniziative imprenditoriali orientate alla produzione di manufatti mutuati dall’antico: la fonderia Sommer, la manifattura Giustiniani.
Grazie all’eredità intellettuale illuminista, nel corso dell’Ottocento Napoli poté emergere anche come sede di istituzioni scientifiche. Per lo studio della biologia marina si distinse dal 1872 l’attività della Stazione Zoologica che, all’interno, venne decorata dal tedesco Hans von Marées. Nell’impossibilità materiale di spostare gli affreschi, si è scelto di rievocarli in mostra non attraverso una selezione di disegni preparatori, bensì tramite una installazione video immersiva. Tale espediente, oltre a rivelarsi a tratti pleonastico, carica l’intervento decorativo di una patina cinematografica posticcia che, a ben vedere, stride con l’andamento elegiaco – teso alla sublimazione della costa mediterranea – originariamente concepito da von Marées in accordo con il suo committente, lo zoologo Anton Dohrn.
Con una valida e ben contestualizzata selezione di opere, tra gli altri, dei fratelli Palizzi e Domenico Morelli, Napoli Ottocento sottolinea poi l’importanza della città partenopea per la precoce affermazione in Italia del verbo verista. Tuttavia, fare leva con eccessiva enfasi sulla reazione anti-accademica porta all’inevitabile inabissamento di quelle tendenze intrise di un assai poco patinato – dunque ancora oggi poco digeribile – gusto storicista che, in vie sotterranee, continuò a perdurare oltre la metà del secolo. Accanto ai tanti giovani impegnati a riprodurre il vero senza pregiudizi e sincronizzati sulle istanze sociali – esemplare, e giustamente esposta, la tela di Michele Cammarano Ozio e lavoro (1863) – nella presente mostra non c’è traccia di personaggi più sfuggenti – come Giuseppe Mancinelli – che, pur facendo parte del côté accademico, furono comunque capaci di dialogare con i «dissenzienti» dell’enclave realista.
A integrazione di un filtro interpretativo basato sull’immagine – forse lievemente stereotipata o comunque parziale – di una Napoli strabordante di passioni perché alimentata dal fuoco del Vesuvio, nell’ultima sezione della mostra si passa poi a istituire una discutibile connessione tra gli esiti materici di certa pittura napoletana tardo ottocentesca epitomizzata dal prolifico Antonio Mancini (1852-1930) e le sperimentazioni di segno informale portate avanti da maestri del secondo Novecento – come Alberto Burri e Lucio Fontana – i quali però ebbero legami marginali con il capoluogo campano. Sarebbe stato allora maggiormente corretto dal punto di vista filologico se, nell’accanita tendenza a volere elevare Mancini a precursore della sensibilità informel, ci si fosse limitati a relazionarlo al solo Salvatore Emblema, che si formò davvero all’ombra del Vesuvio e utilizzò nelle sue opere lapilli e pietre vulcaniche. Ancora più apprezzabile, forse, sarebbe stato chiamare in causa gli animatori della rivista «Documento Sud» – Biasi, Del Pezzo, Fergola, Luca, Persico – che, nella Napoli tra anni cinquanta e sessanta del Novecento, elaborano una propria originale via alla pittura di materia percorsa di riferimenti al folklore e all’immaginario della propria terra.
Seppur affascinante, l’idea di una corrispondenza profonda – non risolta cioè solo sul piano delle assonanze visive – tra le haute pâtes ottocentesche e le prove autre dei protagonisti della neoavanguardia risulta, oltre che labile, sostanzialmente viziata. Il gusto per le concrezioni e le agglutinazioni plastico-cromatiche non è infatti esclusivo dell’ultimo Ottocento napoletano ma, almeno da Tiziano, si riaffaccia ciclicamente nella Storia dell’arte.
Tra le righe, l’epilogo sottilmente sensazionalistico della mostra sembra voler suggerire una tesi inquietante, ovvero che la validità dei linguaggi ottocenteschi possa venir misurata esclusivamente secondo il canone modernista di un certo Novecento. E il rischio, ancora una volta, è di ridurre l’Ottocento – in questo caso napoletano – a una parabola di stampo vasariano.