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Ottocento italiano alla GNAM, una tappezzeria social

Ottocento italiano alla GNAM, una tappezzeria socialRoma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, "Panorama XIX"

A Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, "Panorama XIX" Esposte senza distinzioni nel salone centrale, forse per evocare l'effetto stipato delle quadrerie dell'epooca, le opere ottocentesche del museo romano non sembrano parlare il linguaggio della conoscenza ma quello dell’"horror vacui" tecnologico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

La temporalità del Museo, si sa, è paradossale. In occasione della mostra Panorama XIX (fino al 5 novembre) le opere dell’Ottocento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma sono state riunite – si potrebbe dire compresse – all’interno del Salone centrale, senza distinzioni cronologiche, di scuola, di stile o di formato. L’effetto dell’allestimento, spiazzante ma senza dubbio d’impatto, in un certo senso evoca la vertigine degli accrochages espositivi percepita dagli stessi uomini dell’Ottocento in visita ai Salon coevi che, come descritto nei romanzi del Naturalismo francese – si pensi all’Œuvre di Émile Zola (1886) –, erano letteralmente costipati di quadri.
Lo spettacolo dell’horror vacui, oltre a essere consustanziale all’estetica del XIX secolo, appare affine anche al gusto contemporaneo, così condizionato dall’ingerenza di continui e trasversali stimoli visivi generati dal capillare uso delle nuove tecnologie. Segno tangibile di tale predisposizione all’accumulo, spesso alogico e passivo, delle immagini è offerto dall’atteggiamento di molti visitatori del museo di Valle Giulia che, forse ignari dello spessore storico delle opere e forse inconsapevoli anche della materialità delle stesse, si aggirano per la mostra scattando compulsivamente fotografie e selfies. La spiccata ed effimera teatralità dell’assetto espositivo viene quindi recepita come una «tappezzeria» bidimensionale da rilanciare e condividere sui social; di conseguenza, la complessità dell’Ottocento italiano si trova a essere annullata in una caleidoscopica ma livellatoria visione d’insieme che in fondo non porta a nessun avanzamento nella comprensione di un’età da sempre comunicata per mezzo di stereotipi.
Benché disposti gli uni accanto agli altri, i dipinti dell’Ottocento della Galleria Nazionale sembrano isolati. E qui si avverte un primo paradosso: questi manufatti, seppur sottratti dall’ombra dei depositi, rimangono invisibili perché affogati in accostamenti spesso labili e artificiosi. Cosa può dire a un pubblico mediamente accorto la prossimità tra la Stimmung preromantica di un paesaggio tardo settecentesco di Marianna Dionigi e il realismo aneddotico della tela Sposalizio a Venezia di Alessandro Milesi (1897)? Qual’è la connessione che giustifica la permanenza su una medesima porzione di muro del piccolo capolavoro proto-simbolista di Nino Costa To be or not to be. Who loves not is not (1879) e di un ritratto di Cesare Tallone del 1883 dall’impostazione tanto severa quanto fotografica? E ancora, nel caotico mosaico di quadri giustapposti, come si può cogliere il valore di autori poco noti – ad esempio Andrea Gastaldi, Luigi Serra, Stefano Ussi –, i quali, a causa di una diffusa insensibilità, non riescono a scrollarsi di dosso l’etichetta di «pompier»?
Nella breve sinossi introduttiva a Panorama XIX, disponibile online, la direttrice della Galleria Nazionale Cristiana Collu ha dichiarato – forse sottintendendo la conoscenza da parte del pubblico della ramificata e contraddittoria politica di acquisizioni avviata dal museo sin dal 1883 – che la mostra intende evidenziare le modalità con cui si sono andate a formare le collezioni del XIX secolo. Una prospettiva affascinante che tuttavia viene disattesa dall’opacità di una linea curatoriale che, oltre a sottrarsi dal fornire più in dettaglio le ragioni di specifiche scelte critiche, sembra neutralizzare l’unicità delle testimonianze artistiche della civiltà ottocentesca. Se infatti si riflette sulla configurazione delle opere esposte – ammassate come delle affiches – sorge il dubbio che la cultura figurativa del diciannovesimo secolo non solo rappresenti ancora un tabù ma che, anche a causa della permanenza di sovrastrutture critiche pregresse, sia interpretata come sinonimo di un ordine concettuale reazionario.
Panorama XIX, giustamente, rifugge dalla mistica nazionalista che in passato è stata utilizzata per inquadrare il nostro Ottocento. Tuttavia, avendo posto al centro un materiale visivo ancora controverso e non del tutto metabolizzato, ci si aspettava forse un discorso più articolato e mordente. A tal proposito è utile rammentare la pioneristica retrospettiva Équivoques – organizzata nel lontano 1973 dal Musée des arts décoratifs di Parigi – che, senza intenti celebrativi, contribuì a ridare visibilità e consistenza all’arte «accademica» francese non allineata ai diktat dell’Impressionismo.
Concepita come una sorta di appendice di Time is Out of Joint – ultimo ordinamento delle collezioni della Galleria Nazionale, inaugurato nel 2016 –, Panorama XIX tende a scardinare una concezione gerarchico-cronologica della storia dell’arte proponendo accattivanti interferenze novecentesche e anche ipercontemporanee – ad esempio i lavori di Elena Damiani, Alessandro Piangiamore, Massimiliano Turco –, che però non appaiono sufficientemente contestualizzate nel maremagnum di opere ottocentesche. Stimolanti, ma poco sviluppate e dunque evasive, si offrono poi le epifanie di de Chirico, evocato sia con la copia della Gravida di Raffaello (1923) sia con l’Autoritratto in costume del Seicento (1947), forse per alludere alle istanze antiavanguardiste gravanti su una certa idea di Ottocento legata all’esaltazione del «mestiere».
All’opposto, nella già citata introduzione alla mostra, si pone molta enfasi sulla convinzione – corretta ma poco confutabile attraverso la selezione delle opere esposte – che alcune esperienze estetiche ottocentesche – ad esempio certa pittura di paesaggio scrupolosamente analitica, oppure certi meccanismi ottici antenati del cinema come gli stereoscopi e i diorami – abbiano accelerato, espanso e anche manipolato i nostri sensi precorrendo gli effetti dell’odierna realtà virtuale. Si rivelano quindi eloquenti i molti video disseminati nel percorso espositivo che, dai cortometraggi dei fratelli Lumière all’iconica scena del ballo tratta dal Gattopardo di Visconti (1963), evidenziano l’osmosi tra cinema e soluzioni stilistiche già sperimentate dalla pittura. In tale contesto si scorge criptica una sorta di ossessione per le immagini in movimento – intese come punto di arrivo di un sofferto processo di emancipazione dalla fissità dei metodi di rappresentazione tradizionale – e, velatamente, si intravede un approccio che giustifica l’Ottocento solo per i suoi caratteri di anticipazione delle ricerche moderniste del secolo successivo. A ben vedere, però, la rincorsa a ricreare effetti di moto sembra non aver attecchito in gemme della Galleria Nazionale quali la Madonna del Rosario di Tommaso Minardi (1840) e la Santa Caterina di Alessandro Franchi (1888), fisse in una assiale ieraticità eppure bellissime e altrettanto moderne.

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