Otto minirecensioni
Libri VICTOR I. STOICHITA EFFETTO SHERLOCK IL SAGGIATORE Non è la prima volta che la folgorante strategia visiva di Alfred Hitchcock, il più moderno dei classici, è analizzata in rapporto alla […]
Libri VICTOR I. STOICHITA EFFETTO SHERLOCK IL SAGGIATORE Non è la prima volta che la folgorante strategia visiva di Alfred Hitchcock, il più moderno dei classici, è analizzata in rapporto alla […]
VICTOR I. STOICHITA
EFFETTO SHERLOCK
IL SAGGIATORE
Non è la prima volta che la folgorante strategia visiva di Alfred Hitchcock, il più moderno dei classici, è analizzata in rapporto alla storia dell’arte di ieri e alle vicende del romanzo poliziesco. Si sa tutto delle sue predilezioni per John Buchan (“Il club dei trentanove”), Joseph Conrad (“Sabotage”), W. Somerset Maugham (“L’agente segreto”), Ethel Lina White (“La signora scompare”) e della sua avversione per il “vhodunit”, per la tradizione british che arrivato a Hollywood riuscirà una volta per tutte a lasciarsi alle spalle insieme alle regole dell’indagine razionale per sostituirvi la struttura delle emozioni al fondo dello spettacolo cinematografico come grande spettacolo di massa. Ma forse nessuno si era spinto così a fondo in un’analisi che mescolando Manet e Hopper, Duchamp e Magritte con la detection di Sherlock Holmes, addirittura con la silhouette disegnata da Sidney Paget, riesce a dire qualcosa di nuovo, o quasi nuovo, su “La finestra sul cortile”. Senza mai citare il racconto di Cornell Woolrich che gli ha imprestato le ombre minacciose del microcosmo urbano in cui tutto può accadere, gli inquietanti, febbrili sottotesti che si agitano dietro la flemmatica apparenza del fotografo-detective James Stewart (pp. 244, euro 20,00).
BIAGIO PROIETTI, MARIO GEROSA
DANIELE D’ANZA
IL FOGLIO
Come si scrive un libro a quattro mani? Niente di più facile se uno dei due autori è un dotato architetto-giornalista dagli interessi plurimediali, e l’altro un noto autore televisivo che ha lavorato con Daniele D’Anza per quasi vent’anni, dalla fine dei Sessanta in poi. Il ritratto del grande artigiano – il signore elegante, raffinato e sempre giovane che dalla copertina ci guarda tra l’imbronciato e il malizioso – rievoca la stagione della tv degli inizi, quando uomini di spettacolo, che venivano dai giornali, dal cinema, dal teatro, sperimentano le potenzialità del nuovo medium in un numero incredibile di programmi di prosa (da “La moglie ideale” a “La casa di Bernarda Alba”), varietà ( da “Il mattatore” a “Un due tre”), sceneggiati letterari (da “Orgoglio e pregiudizio” a “Madame Bovary”), gialli (da “Giocando a golf una mattina” a “Il giudice e il suo boia”), opere musicali (da “Scaramouche” a “Cyrano”), con il piglio sicuro dell’innovatore che non teme di inoltrarsi nei territori fino allora non battutti dell’intrattenimento. Il suo capolavoro? “Il segno del comando” in cui nel fatidico giugno del 1971 il mystery stinge nel magico, facendo scrivere alla stampa che la televisione scritturava i fantasmi (pp. 332, euro 16,00).
DARIO ZONTA
L’INVENZIONE DEL REALE
CONTRASTO
Ammettiamolo. Non è facile scrivere sul cinema italiano degli ultimi anni in cui la debordante quantità di titoli e la latitanza di parametri di riferimento sembrano fatte apposta per scoraggiare ogni visione d’insieme. La scelta del libro è vincente. I dieci registi intervistati – Gianfranco Rosi, Roberto Minervini, Alina Marazzi, Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, Giovanni Columbu, Alessandro Comodin, Leonardo Di Costanzo, Alice Rohrwacher, Matteo Garrone – si muovono tra realtà e finzione, documento e racconto, inchiesta e drammaturgia. Partono dal reale, ma riescono a reinventarlo in un cinema che prova a dire chi siamo, cosa facciamo, dove stiamo andando. Naturalmente secondo modalità differenti, percorsi inomologabili, chiavi di lettura agli antipodi. Se per alcuni è forte la tentazione dell’archivio, salvando comunque la soggettiva o risolvendola nel paesaggio, per altri dominano la terra, il cielo, le rocce, i volti, gli animali. C’è chi scommette sull’esperienza delle emozioni e dei sentimenti. Chi s’interroga sulla verità dei personaggi, ma vorrebbe spingersi ancora più a fondo sull’immediatezza. Chi va in cerca di un’emblematica idea di mondo, con tutte le difficoltà del caso. Ma si potrebbe continuare (pp.212, euro 21,90).
CHARLIE CHAPLIN
OPINIONI DI UN VAGABONDO
MINIMUM FAX
Neppure quando alla fine dell’anno scorso ricorre l’anniversario della sua scomparsa – avvenuta a ottantotto anni a Corsivier-sur-Vevey il 29 dicembre 1977 – nessuno ha voglia di riparlare di “La contessa di Hong Kong” il suo ultimo film di un decennio prima, considerato quasi da tutti un clamoroso flop ormai archiviato. Ma nella raccolta di interviste a cura di Kevin J. Hayes ritornata da poco in libreria, ce ne sono due che sembrano riaprire il discorso, una apparsa su “Life” in occasione della prima a New York e l’altra sul “Sunday Times” all’indomani dell’uscita del film a Londra. Il grande attore-regista mette le mani avanti: “Ogni volta che faccio un film tutti dicono: Oh, Chaplin è vecchio. Ha una tecnica antiquata. Be’, noi non mettiamo la cinepresa sottosopra, e altri giochetti di prestigio da quattro soldi. Io credo che la personalità, la gente, l’aspetto umano siano superiori a qualsiasi acrobazia della cinepresa”. Subito dopo l’insuccesso londinese, dice: “Non capisco che cosa stia succedendo laggiù. Credo che siano ubriachi di modernità. E’ un genere bizzarro di disperazione, un sonnambulismo, una negazione dell’arte, di qualsiasi genere di semplicità. Ma presto torneranno in sé e cominceranno a divertirsi con una commedia insolita come la mia” (pp. 280, euro 16,00).
MAURIZIO DE GIOVANNI, LUCIA DI GIROLAMO
FOTOROMANZO NAPOLETANO
SKIRA
Quando il Commissario Ricciardi si avventura tra gli archivi delle case di produzione degli inizi del Novecento, non sa ancora che è alle prese con la sua indagine più difficile, forse impossibile. Se gran parte delle pellicole del muto è andata irrimediabilmente perduta – anche le due versioni di “Fenesta che lucive”, quella del ’14 e quella del ’25, tratte entrambe dalla straordinaria canzone celebrata da Pier Paolo Pasolini e Salvatore Di Giacomo, e il meno noto ma forse più curioso “Dov’è la mia vita”, dove l’attrice Liana Kàdmina impersona un’insolita figura di donna dalle molte facce: devota crocerossina, artista di talento, ribelle innamorata di un anarchico, moglie di un ricco borghese – non resta che accontentarsi delle bellissime foto, le sole testimonianze rimaste insieme a una manciata di didascalie. Sufficienti per evocare il vibrante scenario del cinema muto napoletano, i suoi appassionati melodrammi d’amore e di morte, in cui si anima la memoria collettiva della città partenopea, ma anche le sue laceranti contraddizioni. Nel segno della multimedialità “Il senso del dolore” inaugura in questi stessi giorni i fumetti del Commissario Ricciardi pubblicati da Sergio Bonelli, lo storico editore di Tex (pp. 92, euro 18,50).
ALESSIO SCARLATO
LA TELA STRAPPATA
PELLEGRINI
Il capitolo più intenso è l’ultimo, dedicato a Jean-Luc Godard e alla sua idea che “fare la storia dei film non fatti, piuttosto degli altri” è essenziale, anzi dovrebbe essere l’oggetto privilegiato della storia del cinema. Raccontare “ciò che non ha mai avuto luogo”, il retro della Storia, ci permetterebbe di indagare su quello che il Novecento non ha saputo immaginare, che è rimasto ai margini della visione. Spiccano nello scaffale dei progetti irrealizzati il “Napoleone” a cui Stanley Kubrick lavora per parecchio tempo, raccoglie avvenimenti della vita dell’imperatore, elabora cronologie, compila tabelle, ricostruisce le battaglie nelle carte geografiche, per poi non farne nulla. Il “Don Chisciotte” che Orson Welles insegue per tutta la vita, girandone dei frammenti nelle pause degli altri film, fino a mettere insieme un’enorme quantità di materiali che non riuscirà mai a montare. “Il viaggio di G. Mastorna” di Federico Fellini, più volte iniziato, abbandonato, ripreso fino a che l’ingombrante scartafaccio del film che non si farà finisce in un armadio, di cui si affretta a buttar via la chiave. Per chi si accontenta, c’è il piacevole fumetto che ne ha ricavato l’estroso Milo Manara (pp. 353, euro 20,00).
VITO ATTOLINI, ALFONSO MARRESE
SANDRO DE FEO FRA TEATRO CINEMA LETTERATURA
EDIZIONI DAL SUD
Quant’è che non si parla più di Sandro De Feo, scomparso cinquant’anni fa. Tra ironia e disincanto, è uno dei protagonisti della stagione dei caffè romani. Con Ercole Patti, uno dei numi tutelari del Caffè Rosati a Piazza del Popolo, dove teneva il campo Mario Pannunzio con quelli del “Mondo”, ma spesso veniva anche Moravia. O Elsa Morante. Dopo mezzanotte arrivava Ruggero Maccari. Qualche volta Roberto Rossellini. Quando il Gruppo ’63 s’impadronisce del Rosati, De Feo e i suoi attraversano la piazza e si insediano al Canova. La lunga militanza di critica teatrale su “L’Espresso” dal ’55 al ’68 ha fatto dimenticare non solo la sua attività di narratore, ma anche il decennio di critica cinematografica su “Il Messaggero” dall’inizio anni Trenta al ’43. Accanto a Filippo Sacchi e Mario Gromo, una presenza autorevole con centinaia di recensioni, ricostruita con esemplare lucidità da Vito Attolini, il rimpianto critico e saggista che se n’è andato mentre usciva questo libro. I film più importanti dello sceneggiatore sono nel dopoguerra “Europa ‘51”, “Tre storie proibite”, “La provinciale”, dove l’attenzione ai personaggi femminili, alle loro inquietudini borghesi ricorda le amare tonalità dei romanzi (pp. 170, euro 15,00).
VERONESE,PITTIGLIO,CAMINITI
SENTI CHI PARLA
ANNIVERSAYBOOKS
Singolare paradosso tecnologico – che mette in discussione il naturale rapporto voce/volto e suscita le perplessità dei puristi che lo considerano una sorta di sacrilega mostruosità – il doppiaggio italiano ha scommesso sulla propria capacità di traghettare una mondo di parole e di suoni, e di reinventarlo talora con acrobatica abilità. Si moltiplicano i libri sul fenomeno, tra cui spicca questa suggestiva galleria di signori degli anelli, sconosciuti e insieme familiari, testimoni di frasi proverbiali, pronunciate in altrettanti titoli del cinema di ieri e di oggi. Se passiamo il nostro smartphone sopra le pagine, sentiamo la voce di Giuseppe Rinaldi/Marlon Brando che in “Il Padrino” dice “Ci faccio un’offerta che non può rifiutare”. O quella di Lydia Simoneschi/Vivien Leigh che in “Via col vento” si consola “Dopotutto domani è un altro giorno”. O quella di Rosetta Calavetta/Marilyn Monroe che in “Quando la moglie è in vacanza” sussurra “Uuuh! Senta il vento della sotterranea. Aah, che delizia”. O quella di Cesare Barbetti/Robert Redford che in “Come eravamo” sostiene “La vita è troppo seria per prenderla seriamente”. O quella di Cristina Boraschi/Julia Roberts che in “Pretty Women” ammette: “Beh, io non cerco di irretirlo. Io lo uso solo per il sesso” (pp.160, euro 20,00).
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