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Ottessa Moshfegh, la finzione irrompe sulla scena del delitto

Ottessa Moshfegh, la finzione irrompe sulla scena del delittoMichele Abeles da «Zebra», 2016

Scrittrici americane Giocando a parodiare i generi narrativi, l'autrice mette in scena un cadavere con relativo messaggio: quali indizi contano? Quelli letterari. «La morte in mano», da Feltrinelli

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 6 settembre 2020

Con il suo cane Charlie, Vesta Gul attraversa ben sette stati per allontanarsi il più possibile da un’esistenza ordinaria e irrealizzata: alle spalle, la recente vedovanza, dopo quarant’anni di vita all’ombra del marito, noto epistemologo e accademico, in una cittadina di provincia, presumibilmente del Middle West. All’indomani del funerale, Vesta ha smantellato la vecchia casa e salutato per sempre «quel posto e tutto quello che aveva buttato addosso» per stabilirsi a Levant, zona rurale all’est, in uno chalet isolato sulla sponda di un lago, che dalle foto le si era offerto come «la casa dei sogni». La nuova vita è scandita da lunghe passeggiate nei boschi di betulle intorno alla sua proprietà, qualche gita in barca all’isoletta in mezzo al lago e i viaggi del lunedì a Bethsmane, il desolante paese nella contea dove fare la spesa e prendere qualche libro in biblioteca.

Protagonista del nuovo romanzo di Ottessa Moshfegh, La morte in mano (traduzione di Gioia Guerzoni, Feltrinelli, pp. 189, € 18,00), la oversettantenne Vesta ha molto in comune con le figure femminili dei due libri che hanno fatto la sua fortuna, Eileen e Il mio anno di riposo e oblio, dove donne un po’eccentriche, vecchie o giovani, si ribellano all’ordine delle cose e cercano un riscatto alla noia esistenziale, nonché una alternativa a solitudine o degrado in spazi e modelli sociali troppo angusti. Moshfegh aziona i suoi meccanismi narrativi con sofisticata ironia e sorprendenti soluzioni giocando con i generi letterari classici per farne il verso o la parodia.

Non è un romanzo giallo
In La morte in mano la storia si apre con un simile stratagemma per immetterci in quello che sembrerebbe l’avvio di un romanzo giallo: «Si chiamava Magda. Nessuno saprà mai chi è stato. Non l’ho uccisa io. Qui giace il suo cadavere»: questo il messaggio, scritto in perfetta calligrafia su un foglietto fermato a terra da piccoli sassi neri, nel quale Vesta si imbatte, passeggiando in uno dei suoi sentieri preferiti. Tanto basta perché la donna stravolga la sua nuova routine e s’immerga nei misteri annunciati da un puzzle a cui sembrano mancare diversi pezzi.

Non c’è infatti nessun cadavere nei paraggi, né indizi che avvalorino quel messaggio – una macchia di sangue, una ciocca di capelli impigliata nei rami, nessuna «sciarpa rossa… a drappeggiare i cespugli». Da detective dilettante e, soprattutto, da grande lettrice di Agatha Christie e amante di film polizieschi, Vesta sposta subito l’attenzione sulle peculiarità letterarie di quelle frasi: false partenze a suo avviso, l’inizio «fallimentare» di una storia finita ancor prima di iniziare visto che nessuno saprà mai chi ha ucciso Magda. Se non era uno scherzo, potrebbe essere stato il tentativo maldestro di un ragazzino delle superiori di scrivere la storia di Magda, un nome troppo complesso e saturo di sfumature per un posto come Levant dove, pensa nel suo snobismo Vesta, al massimo si leggono manuali per il lavoro a maglia. Ma questo vuoto narrativo è l’occasione per dare sfogo a tutto il potenziale immaginativo della donna, che la razionalità piena di sé del marito aveva umiliato. Non cerca tanto l’assassino, Vesta, quanto lo scrittore mancato di un possibile libro che, partendo da quel misterioso messaggio, lei stessa potrebbe scrivere.

E infatti, con un abile gioco metanarrativo, Moshfegh rende la sua protagonista capace di dedicarsi a una stesura ogni progresso della quale è scandito dalla ripetizione dei frammenti del messaggio trovato sul sentiero. Nel dare una fisionomia a quell’io che le ha lanciato la sfida, ovvero alla voce narrante che non aveva ucciso Magda, Vesta decide di chiamarlo Blake come il poeta romantico inglese, proiettando su di lui i connotati di un ragazzotto del luogo, che nella sua mente alterna apparizioni in cui si aggira nel bosco di betulle come l’improbabile assassino pronto a colpirla, a altre in cui collabora alla storia lasciando sul terreno messaggi enigmatici. Per scrivere la sua «piccola storia dell’orrore» urgono alla protagonista un corso rapido di scrittura creativa, una tattica d’investigazione raffinata e una strategia più elegante di quella in possesso degli sbirri del paese. Interrogando un vecchio data base nel computer della biblioteca di Bethsname, Vesta si imbatte in una sorta di prontuario per scrittori di gialli, ciò che permette a Moshfegh di volgere la sua storia in commedia e, tramite la sua protagonista, comporre un ricettario fai-da-te per autori di romanzi polizieschi sciorinando tutti gli ingredienti utili a costruire una trama.

Dunque, seguendo le istruzioni Vesta butta giù un canovaccio e compone il cast dei personaggi in un esilarante capitolo dove la figura di Magda emerge completa dal questionario proposto da internet: è una sans papier emigrata dalla Bielorussia, arrivata in America per un lavoro estivo e mai rientrata, badante abusata oppure commessa in un fast food. La storia personale di Vesta preme sul personaggio fino a diventare il suo doppio, dando luogo, nella sua mente, a un regolamento di conti con se stessa, col marito «carceriere», con i genitori.

Dalla parodia dell’aspirante scrittrice, Moghfesh passa di nuovo alla tragedia: ora Vesta non distingue più il vero dal falso, ha la morte in mano, quella fisica che s’avvicina e quella di un potenziale narrativo ormai svanito. La realtà è dunque solo una percezione, come il marito epistemologo le aveva insegnato?

Una storia satura di solitudine
I cambiamenti di rotta nell’intreccio possono forse indurre smarrimento, tuttavia La morte in mano si configura come una grande storia americana di solitudine e riscatto in cui Moshfegh eccelle nel rappresentare i luoghi in cui si muovono i suoi personaggi, suggerendo un legame forte con la tradizione letteraria del New England, dove è cresciuta, a cominciare dalle cupe atmosfere dei monologhi drammatici di Robert Frost, il poeta che meglio ha ritratto la vita nelle zone rurali intorno Boston, le apprensioni di chi vive la tragedia dell’isolamento, accanto agli immensi boschi di betulle e pini, a contatto con una natura sublime e misteriosa, specchio delle paure e dei misteri dell’animo umano.

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