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Otomo Yoshihide, tra noise e sacralità

Otomo Yoshihide, tra noise e sacralitàOtomo Yoshihide – foto di Andrea Mazzoni

Musica Dopo i due live ad inizio anno con il New Jazz Quintet e il set in solo coi giradischi dell’anno scorso, torna in Italia per un’unica data l'artista giapponese al Festival Aperto con la Special Big Band

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024
Nazim ComunaleREGGIO EMILIA

Dopo i due live ad inizio anno con il New Jazz Quintet e il travolgente set in solo coi giradischi dell’anno scorso, torna in Italia per un’unica data al Teatro Ariosto, grazie ad Angelica e Festival Aperto, Otomo Yoshihide, per la prima volta con la Special Big Band, ensemble con cui ha inciso nel 2022 Stone Stone Stone, concepito in tempo di pandemia con l’intenzione, nelle parole del compositore, “di lanciare piccole pietre per muovere la montagna”. In effetti, indipendentemente dagli ambiti in cui spazia, l’arte del chitarrista, produttore, agitatore culturale e sonoro si è distinta nei decenni proprio per questo suo essere tellurica e mai prevedibile. Il sipario si alza su potenti unisoni della band (otto fiati, due batterie, percussioni, basso elettrico, synth, elettronica, fisarmonica e la proverbiale chitarra di Otomo a fendere con rasoiate) e sul groove travolgente del pezzo di apertura del disco, un trionfo di orchestrazioni free su un robusto telaio jazz. Da subito risulta evidente come l’ensemble sia aperto a mille direzioni: a turno, tutti i musicisti si alzano per dirigere, quasi sempre in coppia o in trio, i loro colleghi, creando momenti di caos libero e controllato, dove la musica scorre fluida e vulcanica. “Il free jazz mi ha ispirato a fare della musica il lavoro della mia vita. Free jazz giapponese e free jazz classico americano sono uno dei miei punti di partenza”, ci aveva detto nell’intervista dell’anno scorso.

La musica tende a un parossismo panico senza mai eccedere nel gratuito o scivolare nel didascalico, risultando fruibile ma mai didascalica

IN EFFETTI, l’idea semplice, efficace e geniale (per quanto non inedita nel lungo percorso dell’artista) è quella di far collidere la pronuncia efferata e selvatica del noise e dell’improvvisazione radicale giapponese con i testi sacri della musica creativa di matrice afroamericana. In questo modo, i capisaldi della storia vengono spettinati e restituiti a nuova luce. Va detto che, negli anni, la parte più cattiva e rumoristica ha lasciato spazio a un dettato tendente a forme più accomodanti, ma l’energia emanata dall’orchestra è tale da non lasciare adito a perplessità di sorta. Il concerto procede per folate, alternando classici come Song For Che di Charlie Haden, dal disco con la Liberation Music Orchestra, straordinaria nel suo stare in perfetto equilibrio tra elegia e invito alla lotta, a Something Sweet, Something Tender di Eric Dolphy.

LA MUSICA tende a un parossismo panico senza mai eccedere nel gratuito o scivolare nel didascalico, risultando fruibile ma mai didascalica; si passa da frangenti a tutto volume, dove i suoni puntano al cielo, a parentesi riduzioniste, o altre in cui il mood si fa più rarefatto. In ogni momento, però, non si perde mai di vista la musicalità e la qualità narrativa di tracce che, alternando lama e carezze, portano per mano il pubblico in un benefico viaggio tra tradizione e rumore. C’è spazio anche per un pezzo dalla colonna sonora di un film cinese di trent’anni fa e ancora proibito in patria, il primo scritto da Yoshihide per il cinema, e infine per un bis, dove la chiusura è affidata a una ninna nanna che finisce in gloria e feedback.

 

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