Eravamo tre amici poco più che ventenni, quando insieme a Luciano Barcaroli e Daniele Villa ci sembrò necessario colmare un vuoto e realizzare la prima monografia dedicata a Otar Ioseliani, sotto forma di libro intervista. Con il cuore in mano spedimmo le domande, dopo giorni di lavoro ininterrotto, sperando in un appuntamento. Sorprendendoci Otar decise di venire a Roma e iniziare pochi giorni dopo quelle sessioni di incontri che avrebbero cambiato la nostra vita. Perché questo Ioseliani è in grado di fare: mettere a soqquadro la vita, scompigliarla, restituendoti un tempo assoluto, in cui scambiarsi qualcosa di così profondo da lasciare senza fiato. Ogni incontro che ne è seguito è stato à bout de souffle, in un susseguirsi ininterrotto di mesi e anni, ogni volta che si voleva infilare la testa in quel turbine bastava una chiamata e Otar era lì a ricordarti per cosa valesse la pena vivere: l’amicizia che crea legami indissolubili.

ECCOMI allora a Tbilisi, nel più triste dei giorni, quello in cui si dovrebbe sancire una perdita, il suo corpo è lì circondato da una folla composta, amorevole, che con passi discreti percorre il perimetro intorno al feretro, come da tradizione ortodossa, e in quella passeggiata circolare si ridisegna tutta la vita della persona omaggiata. La mia mente però viene di nuovo catturata dalla sua energia, si sposta nella sua stanza dove sulle pareti sono appese le foto di tutti i suoi amici, Ana, la sua dolcissima pronipote, mi dice: «Non è bellissimo che non ci siano foto dei suoi film nella sua stanza, o bacheche con i premi, ma solo i volti degli amici più importanti?». Capisco allora quello che Otar sta lasciando, cosa che arriva con una forza prepotente osservando il tavolinetto che la figlia Nana e il nipote Niko hanno allestito con le cose che ha amato di più: un bicchiere colmo di vodka con una fetta di pane di segale a coprirlo, una bottiglia di Calvados, una statuetta di San Giorgio e il drago, e alla fine della giornata, in aggiunta, il nostro libro Addio Terraferma, Ioseliani secondo Ioseliani. Non riesco più a trattenere l’emozione e cerco di capire perché l’incontro con quei ventenni del tempo fosse stato così importante per lui. Per noi era chiaro, si trattava di un incontro a tu per tu con tutto quello che amavamo del cinema, un luogo segreto in cui si formavano le ombre del nostro animo, per lui forse si trattava di una confessione intima nei confronti delle persone più disarmate che potesse incontrare, gli stessi occhi limpidi che scorgo in Ana, che ha la stessa età di noi tre al tempo.

Mi viene in soccorso il racconto che Otar ci fece di un’usanza di alcuni villaggi georgiani, dove all’arrivo di un bambino al cospetto di un gruppo di anziani, quest’ultimi si alzano in piedi in segno di rispetto. Gli anziani omaggiano i più giovani perché sanno tutto quello che aspetta loro, il dispiegarsi ininterrotto della vita. In questo ultimo giorno Otar sembra fare proprio questo, levarsi in alto in segno di rispetto per chi rimane. E chi sta là sotto, avvolto dalla sua ombra che giganteggia come fosse una sequoia millenaria, non può non sentirsi abbracciato, tutto concorre a questa sensazione: l’umiltà assoluta che avvolge quel rituale, nessuna pomposità per il più importante regista georgiano, una vecchia Volkswagen passat lo trasporta al cimitero come avesse preso un passaggio casuale da uno dei suoi amici, o come quando, con scandalo dell’ambasciatore francese in Italia, si presentò nel cortile di palazzo Farnese trasportato dalla vespa di Daniele, prima della presentazione ufficiale del libro.

SOTTO la sequoia siamo tutti suoi figli. E quanto ho cercato quel padre! Io orfano per accidente ho quasi implorato un’adozione, ottenendo in cambio l’amore più generoso che potessi incontrare. Il primo consiglio paterno in assoluto fu: «Carlo, il consiglio più importante che ho da darti è uno: bevi! Perché vedendo i tuoi lavori capisco che vuoi fare un cinema personale, e questo è un mondo così cinico che non può essere affrontato da sobri». Qualche anno più tardi avremmo passato una notte intera nella sua stanza a leggere integralmente Le anime morte di Gogol, ridendo della vita e del suo rovescio grottesco.

Ogni gesto di Otar è un gesto artistico, che crea un mondo, anche lì, in quell’umile appartamento di Tbilisi si svolge un ininterrotto film, con la presenza commovente degli attori delle sue pellicole, primo fra tutti Amiran Amiranashvili, che non smetterà di vegliarlo per l’intera giornata. C’è chi nei suoi film ci è letteralmente cresciuto, come un’attrice che ha cominciato da bambina in Aprile, per poi attraversare ogni opera successiva, perché i film vanno abitati, mica sono qualcosa lontano dal mondo! Sono il mondo declinato dall’amore, un’antologia del desiderio.

COSÌ ogni membro della sua straordinaria famiglia in quei film ha fatto la sua piccola traiettoria: la figlia Nana, indimenticabile bambina di Pastorale, i nipoti Niko e Dato, bambini in Briganti e giovani ragazzi in Addio Terraferma e Lunedì mattina, la pronipote Ana, figlia di Niko, la bambina vispa di Chantrapas. Probabilmente anche lì, mentre il patriarca viene invitato a dire poche parole succinte, perché Otar non sopportava i sermoni (e il patriarca con la coda tra le gambe accetta), mentre il primo ministro è costretto a confondersi tra la massa degli amici, in fondo molto più importanti di lui, come in modo elegante la famiglia fa intendere, stiamo tutti facendo un grandioso film, fatto di fieri nasi georgiani, di donne forti e indipendenti, di ragazzi scintillanti con gli occhi affamati di vita.

Questo è il cinema di Otar: un distillato di pura vita, fatto da un cineasta capace di disegnare traiettorie sinuose, movimenti armoniosi, un balletto cinetico che alterna gioia a nostalgia, perché in fondo la terra non è un posto in cui restare, ma un luogo da attraversare in punta di piedi, danzando. E noi siamo qui per farci dirigere ancora una volta, Otar, fino a quando la testa non gira, perché non vogliamo e non possiamo fermarci. Alé hop!