Cultura

Osservando il mondo attraverso fili spinati

Osservando il mondo attraverso fili spinatiReena Kallat, «Woven Chronicle», 2022

Intervista L'artista indiana Reena Kallat alla sua prima personale in Italia presso la Richard Saltoun Gallery di via Margutta, a Roma. «L’aspetto più insidioso dei confini è che spesso non sono visibili, ma sono incorporati nelle norme sociali»

Pubblicato circa un mese faEdizione del 13 settembre 2024

«L’arte ha in sé un grande potenziale: espandere il nostro modo di vedere il mondo, sia attraverso sottili intuizioni che audaci provocazioni. Penso che offra ancora la possibilità di creare uno spazio per prospettive multiple, dialogo e comprensione, anche in ambienti polarizzati».
Reena Saini Kallat (Delhi, 1973) è alla sua prima personale italiana, inauguratasi ieri, presso la Richard Saltoun Gallery di via Margutta a Roma e visitabile fino al 26 ottobre. L’artista indiana, da anni, interroga le iniquità del sistema-mondo, ripercorrendone le cartografie coloniali e le linee di frontiera, con focus sulle zone di povertà e le emergenze ambientali.

Il suo lavoro utilizza mappe geografiche per indagare «le separazioni», soprattutto quelle geopolitiche. Quali implicazioni ha per lei la parola «confine»?
L’idea dell’individuare linee non visibili siano esse sociali, politiche o psicologiche, mi ha sempre attratta. Modellano la nostra «navigazione», il nostro orientamento nel mondo. Pur se questi confini possono essere impercettibili hanno la capacità di influenzare le nostre scelte e libertà, determinando chi ha diritto di appartenenza o semplicemente possa essere partecipe in spazi specifici. La linea è parte integrante del kit di strumenti di un artista, ma quando viene tracciata attraverso un territorio che è una frontiera politica ha enormi implicazioni per le persone da entrambe le parti, limitando il movimento o l’accesso alle risorse. Agisce come un muro che divide, fisico e simbolico. L’aspetto più insidioso di questi confini è che spesso non sono visibili, ma sono incorporati nelle norme sociali, nei quadri giuridici e persino nelle attitudini culturali.

Reena Saini Kallat

Le costellazioni di filo spinato sono un leit motiv nelle sue opere…
Quando ho iniziato a usare il filo spinato o i cavi elettrici nel 2011, pensavo al filato e al commercio del cotone tra l’India e la Svezia, dato che la mia opera doveva essere esposta alla Biennale di Göteborg, curata da Sarat Maharaj. Volevo tracciare il movimento delle persone attraverso gli scambi commerciali globali, formando una rete di intrecci che collegasse diversi luoghi sulla mappa. Invece di realizzare il disegno a parete con la matita, ho immaginato i fili come un unicum. Veicolano una doppia metafora: essere una via per la comunicazione e la trasmissione di energia, ma anche un simbolo di divisione, una barriera lì dove il filo spinato evoca le recinzioni elettrificate dei confini. Se da un lato sembriamo trascendere le frontiere in un mondo sempre più connesso, dall’altro si assiste a una rinascita del nazionalismo. Nel mio lavoro, questa rete di intrecci vuole incarnare le molte tensioni e contraddizioni.

È stato difficile farsi accettare come artista?
A differenza di molti genitori indiani tipici degli anni ’80 e ’90, che spesso aspiravano a far diventare i loro figli medici o ingegneri, mio padre mi ha incoraggiata a perseguire qualsiasi cosa mi appassionasse. Mi piaceva la medicina così come la danza – avevo studiato il Bharatanatyam e, a un certo punto, ho seriamente pensato di diventare ballerina. Lui riteneva che intraprendere la professione di medico non mi avrebbe lasciato tempo per coltivare i miei interessi nelle arti. Ho avuto poi la fortuna che due delle più rispettate gallerie d’arte indiane di seconda generazione dell’epoca, Chemould e Pundole Art Gallery, si siano unite per lanciare la mia prima personale nel 1998, poco dopo il mio diploma alla sir JJ School of Art di Mumbai. La mostra fu ben accolta e creò le premesse per continuare con il mio lavoro nel corso degli anni.

«Ruled Paper (Red, Blue, White)», 2022

Come ha vissuto la sua famiglia la divisione tra India e Pakistan?
Sono nata a Delhi, ma sono cresciuta nella periferia di Mumbai. È la città più cosmopolita, permette l’accesso a differenti esperienze religiose e culturali, è una sorta di microcosmo dell’India. Ho avuto un’infanzia semplice, frequentando una normale scuola conventuale. Durante le passeggiate serali sulla terrazza del nostro palazzo, mio padre a volte mi raccontava delle grandi case in cui aveva vissuto da giovane, e sapere che aveva imparato l’urdu era affascinante per me. Era nato a Lahore, in Pakistan, che allora faceva parte dell’India indivisa. Mio nonno era un giudice e ogni pochi anni la famiglia si trasferiva da un posto all’altro: alcuni dei componenti finirono sul lato indiano del confine segnato durante la spartizione, altri sul versante opposto. Mio padre, essendo il più giovane dei suoi fratelli, studiava ancora nel Punjab, nell’India pre-partizione. Dopo la morte prematura del nonno, suo fratello maggiore dovette trasferirsi quando il Paese fu diviso in due. Più di dieci milioni di indù, musulmani e sikh raggiunsero il lato che preferivano dei confini di nuova formazione basandosi su «linee» religiose, dando luogo a una delle più grandi migrazioni forzate nella storia dell’umanità. Seguendo una convinzione diffusa all’epoca, mio zio credeva che sarebbe potuto rientrare a casa sua (nell’attuale Pakistan) una volta che si fosse tutto sistemato. Nessuno in famiglia si era resa conto che i pochi averi portati con sé oltre confine sarebbero rimaste le uniche cose della loro vita precedente. Persero tutto, dalle vecchie fotografie agli effetti personali: il ritorno non fu più possibile.

Ci può raccontare la sua iconica installazione «Woven Chronicle»? Vediamo fili intrecciati al posto di quelli spinati che separano le diverse «geografie»…
È un wall drawing che mostra le rotte migratorie di varie comunità, dai braccianti ai professionisti. Ho pensato al mondo connesso in fibra ottica con i cavi sottomarini. La componente audio dell’opera comprende il suono delle correnti ad alta tensione, il rumore ambientale delle profondità marine, gli impulsi elettrici e i toni delle telecomunicazioni, le sirene delle fabbriche, i droni e i clacson delle navi, il tutto mescolato ai richiami degli uccelli migratori. Questa ultima interazione fa riferimento alla mappa dell’impatto dell’umanità sull’ambiente, con la codifica a colori dei fili in base all’impronta ecologica dei diversi Paesi. Quando quella di una popolazione supera la sua biocapacità si va in deficit. È interessante notare che il Sud del mondo, solitamente considerato meno sviluppato, sembra comportarsi relativamente meglio del Nord.

Installation view, foto Giorgio Benni

Come tecnica artistica, lei ha spesso scelto il ricamo o la tessitura. È un omaggio a un’antica saggezza femminile che si tramanda da generazioni?
È interessante questa domanda perché, in un certo senso, sì, il mio lavoro si collega all’idea di artigianato – la realizzazione di oggetti fatti a mano – che attinge a un lignaggio di conoscenze femminili comuni. Tuttavia, sono anche molto consapevole di non usare il filo a causa delle sue ovvie associazioni con le pratiche femminili tradizionali. Nel tentativo di spingere le possibilità materiali, ho deciso di intrecciare cavi elettrici come se fossero un filato, così da evocare un tessuto.

In alcune sue opere, come ad esempio «Ruled Paper (Red, Blue, White)», gli stessi cavi formano linee, griglie che ricordano quelle delle pagine dei quaderni che si usavano a scuola.
Sì, nel caso di Ruled Paper il riferimento è alla nostra introduzione all’apprendimento della scrittura all’interno delle linee rette e alle idee di conformità. I colori delle righe ricordano le bandiere di Paesi coloniali come il Regno Unito, gli States, la Francia e i Paesi Bassi. In un certo senso mi riferivo all’indottrinamento: siamo addestrati (in molti modi non detti) a conformarci alle regole. Il linguaggio della comunicazione e i sistemi educativi possono colonizzare la mente, come leggiamo la storia non scritta dei territori contesi. Anche il passato coloniale continua a influenzare, informare e plasmare l’ immaginazione.

Pattern Recognition, 2018 (part.)

«Pattern Recognition» (in mostra) rivela un’idea di lettura: decodifica le mappe come fossero tabelle per misurare la vista.
La pandemia ha rivelato non solo il nostro profondo scollamento con il mondo naturale, ma ha anche prodotto nuovi confini. In quel periodo, leggevo come i Paesi del Nord del mondo con passaporti «di prestigio» avessero imposto severe restrizioni legate al Covid-19 ai viaggi in entrata, contenendo così la mobilità dal Sud del mondo. Mentre quelli con passaporti di rango inferiore avevano solo allentatole proprie frontiere, senza però vedere ricambiata questa apertura. Tutto ciò ha ampliato le disuguaglianze tra i due emisferi. Nel mio lavoro fotografico sostituisco gli alfabeti della «tabella oculistica» di Snellen con le mappe delle nazioni seguendo una disposizione gerarchica in scala: i Paesi più potenti sono mostrati più grandi e hanno accesso a più nazioni senza dover richiedere un visto, mentre quelli meno influenti sono riprodotti progressivamente più piccoli. Al vertice della piramide c’è il Giappone, dove nel 2022 il passaporto consentiva ai suoi cittadini di accedere a 193 Paesi, mentre alla base troviamo l’Afghanistan, con un accesso minimo a soli 26. I confini nazionali non appaiono come recinzioni o barricate issate sul territorio, ma sono vincoli che scaturiscono da privilegi e politiche.

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