Ospedali “pennacchio” e meno posti letto per la sanità clientelare
Emigrazione sanitaria La Pandemia è arrivata anche in Calabria. Si spera che possa avere un impatto meno tragico di quello nel Nord Italia, forse grazie all’ambiente, forse grazie alla maggiore tempestività delle […]
Emigrazione sanitaria La Pandemia è arrivata anche in Calabria. Si spera che possa avere un impatto meno tragico di quello nel Nord Italia, forse grazie all’ambiente, forse grazie alla maggiore tempestività delle […]
La Pandemia è arrivata anche in Calabria. Si spera che possa avere un impatto meno tragico di quello nel Nord Italia, forse grazie all’ambiente, forse grazie alla maggiore tempestività delle misure di contenimento. Tuttavia, anche una situazione per ora non tragica, come quella lombarda, mette a nudo, proprio in questi giorni di preparazione al picco dell’epidemia, la fragilità di quello che può definirsi il non-sistema della sanità calabrese.
Che ben prima dell’attuale grande emergenza, ci costringe a constatare che nella Calabria del XXI secolo si muore ancora di classe o di censo.
Il disagio della sanità calabrese deriva da un intreccio di problemi: da una parte la penalizzazione subita in termini di ripartizione delle risorse ; dall’altro il cattivo uso delle risorse pur ingenti pervenute.
La penalizzazione è avvenuta in modi diversi nel tempo. C’è stato il finanziamento in base alla spesa storica che favoriva le regioni con più vaste e radicate strutture. Dopo il 1996, unico anno di vero finanziamento pro capite dei sistemi regionali, la quota capitaria corretta viene assegnata con discutibili criteri che fanno per esempio valere un calabrese il 16% in meno di un ligure. A ciò si è aggiunta la mobilità sanitaria passiva che nel 2019 vale il 10% del Fondo sanitario regionale e che rappresenta una palla al piede della sanità calabrese.
La situazione potrebbe finanche peggiorare se la rivendicata autonomia differenziata del Nord (Lombardia, Veneto, Emilia, innanzitutto) consentisse a queste regioni di migliorare ancora l’offerta di prestazioni sanitarie attraendo più emigrazione dal Sud. Negli anni passati le regioni settentrionali hanno compensato il proprio disavanzo di bilancio sanitario proprio grazie alle economie di scala realizzate con l’afflusso di pazienti meridionali. Il disavanzo si è così trasferito nel Mezzogiorno, dove il cane si morde la coda: meno servizi- più emigrazione-meno risorse-meno servizi. La sanità calabrese sovverte così le leggi del mercato, poiché la maggiore offerta determina un’alta domanda verso il Nord.
A questa situazione la politica calabrese, di destra e di sinistra, ha risposto in modo irresponsabile.
La sanità è stata usata per mediare il consenso prima dei singoli (clientela su posti di lavoro spesso inappropriati) e più di recente dei territori in cui la merce di scambio è rappresentata dagli ospedali “pennacchio”.
Si tratta di una rete ospedaliera assai irrazionale, arrivata a 41 strutture che mediano il consenso di decine di sindaci di ogni comprensorio, i quali fondano sulla difesa ad oltranza dei “loro” miniospedali collaudate fortune politiche. Sei ospedali, per esempio nel vibonese, con strutture e prestazioni modeste, in spazi di appena 100 km, sono il risultato di gravi errori strategici compiuti nella organizzazione della rete ospedaliera.
L’Italia si è mossa invece con un passo diverso. Le relazioni sullo stato sanitario dell’Italia (1999 – 2009) evidenziano che nel Nord si è registrata una riduzione del 50% degli ospedali e del 28% dei posti letto, concentrando i servizi in poli di elevata qualificazione. Nel Sud gli ospedali sono diminuiti del 23% ed i posti letto del 38%. In Calabria si è avuta, la diminuzione del 2,6% degli ospedali e del 36% dei posti letto.
Si è così rinunciato ai poli qualificati, creando ospedali sempre più piccoli, meno gestibili sul piano economico-finanziario, inutili e forse dannosi sul piano operativo. In tal modo si sono sprecate le risorse, al netto delle discriminazioni accennate comunque importanti.
Il piano di rientro e il commissariamento, tesi solo alla tenuta finanziaria, con gravi tagli al personale, diminuzione dei servizi e ulteriore aumento dell’emigrazione, hanno ancor più depauperato la sanità calabrese.
Oggi è perciò indispensabile un piano “industriale” fondato su un forte rilancio qualitativo del territorio. Si possono creare una settantina di strutture distrettuali vicine ai cittadini (case della salute, poliambulatori) capaci di erogare il primo e parte del secondo livello assistenziale. Tali strutture, da insediare nei piccoli ospedali dismessi e da dismettere, rappresenterebbero un vero filtro verso gli ospedali , a cui demandare il ruolo di gestione dei casi acuti e delle patologie maggiori.
Undici ospedali (8 spoke e 3 hub), uno per ogni importante comprensorio calabrese, possono arginare l’emigrazione sanitaria, ridando pari opportunità a tutti i calabresi.
Al culmine di questa rete si collocherebbe l’hub dell’azienda ospedaliero-universitaria di Catanzaro, realizzando il progetto originario di creare un’integrazione significativa tra la grande tradizione assistenziale degli ospedali catanzaresi e la capacità formativa e di ricerca garantita dall’università.
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