Il teatro del primo Novecento è segnato da un desiderio di ri-teatralizzazione che combatte il primato del testo drammatico e mette al centro dell’accedere scenico gli elementi non verbali dell’arte teatrale: i movimenti dei corpi, la musica, il ritmo, la scenografia. A questa rivoluzione estetica hanno contributo non poco protagonisti dell’arte figurativa di quell’epoca, pittori e scultori animati da una creatività transmediale che contesta i confini tra le arti, li mostra come arbitrati, e limitanti. Tra essi – oltre a Oskar Kokoschka, Wassily Kandinskij, Ernst Barlach, Max Beckmann, Kurt Schwitters – c’è anche Oskar Schlemmer.

Pittore di formazione, poi coreografo, regista, danzatore, scenografo, autore di pièce e saggi teorici sul balletto, direttore della sezione teatrale del Bauhaus dal 1925 al 1929, Schlemmer trova nel teatro il medium per mettere in movimento l’immagine pittorica o la scultura, e per indagare le correlazioni tra il corpo, lo spazio e i movimenti che lo costituiscono. Con le loro coreografie di corpi spersonalizzati e i loro scenari stereometrici, i suoi dipinti manifestano un’energia cinetica che appare recalcitrante alla fissità dell’immagine pittorica. Per questo Schlemmer è presto attratto dalla danza e nel 1912 accoglie subito l’invito di Albert Burger e Elsa Hötzel, primi danzatori del Teatro dell’Opera di Stoccarda folgorati dalla ginnastica ritmica di Émile Jaques-Dalcroze, a collaborare alla creazione di un’opera coreografica che insegua la liberazione dalle catene del balletto classico. Ne nasce un lavoro che non si allontana soltanto dalla danza classica, ma anche dallo Ausdrucktanz che lo avversa: Das triadische Ballett, rappresentato per la prima volta a Stoccarda nel 1922. È una pietra miliare nella storia del teatro e della danza moderni.
Da Adophe Appia a Georg Fuchs, in quegli anni la danza esercitava una forte fascinazione estetica ed epistemologica sulle avanguardie teatrali, perché andava incontro alle loro estetiche antimimetiche e anti-illusionistiche. Anche Schlemmer è tra coloro che vedono nel balletto la fonte a cui attingere per rinnovare profondamente il teatro. La danza gli appare soprattutto un medium ideale per indagare un fenomeno che è oggetto ricorrente della riflessione artistica filosofica dell’epoca: il movimento. Gli artisti del Bauhaus lo mettono al centro delle loro sperimentazioni: studiano i movimenti inerenti ai vari materiali (metallo, legno, vetro) e progettano a partire da essi; considerano la realtà fisica come quella sociale il prodotto di movimenti molteplici che costituiscono e riplasmano continuamente gli ambienti, gli oggetti e persino gli esseri umani.

Nel Balletto triadico come poi alla Bauhausbühne, Schlemmer indaga dunque le dinamiche dei movimenti che generano spazio, producono forme e corpi. Concepisce il corpo del danzatore come un «crocevia di tensioni e flussi di energie», soggetto alle leggi della fisica come della metafisica. Protagonisti del suo palcoscenico astratto e antimimetico sono i costumi «spazio-plastici» ai quali si deve gran parte della seduzione esercitata dal Balletto triadico. Sono fatti di vari materiali (metallo, legno, vetro, plexiglass, plastica, cellofan, specchi rifrangenti) e presentano forme sferiche, coniche, cilindriche, a disco, a spirale. Coprono del tutto i corpi dei danzatori, compreso il volto, e ne condizionano fortemente i movimenti, tanto da far apparire i ballerini come sculture cinetiche, o come esseri artificiali mossi da un regista demiurgo.
Ma come le marionette e gli automi, queste «architetture semoventi» non evocano soltanto gli spettri della disumanizzazione, bensì anche la possibilità di liberare l’essere umano dai suoi vincoli e di accrescere la sua libertà di movimento «oltre la misura naturale». I costumi di Schlemmer vogliono pertanto provocare nel danzatore una diversa percezione del proprio corpo e uno straniamento delle proprie abitudini motorie. Imponendo all’attore posizioni e movenze innaturali, essi mettono in dubbio l’idea di una naturalezza di certi movimenti, per rinviare invece all’origine sempre culturale di ciò che sentiamo come naturale. La costrizione – si sa – può accendere conoscenze represse e dar luogo a resistenze imprevedibili.
Le costrizioni che il Balletto triadico mette in scena sono quelle esercitate dall’«universo tecnologico», come Schlemmer lo chiama. I tempi moderni sono per lui caratterizzati da una forte tendenza alla meccanizzazione, che egli assorbe radicalmente nel suo teatro nella convinzione che, quanto più aumentano le possibilità di meccanizzare tutto il meccanizzabile, tanto più si potrà giungere alla conoscenza di ciò che meccanizzabile non è.

A proposito del suo lavoro, Schlemmer parla di una Tänzerische Mathematik: una matematica che danza, o anche una matematica della danza, capace di mettere in forma i sentimenti e i moti dell’inconscio. Le leggi della matematica e della stereometria su cui l’autore del Balletto triadico si basa per costruire le sue coreografie rappresentano ai suoi occhi l’espressione apollinea epocale dell’essenza dionisiaca della danza da cui sorge il teatro. «Divenire signori sul caos che siamo; costringere il proprio caos a divenire forma: in modo logico, semplice, non ambiguo; matematica, divenire legge: questa è la grande ambizione», scriveva Nietzsche in un appunto. Anche per Schlemmer l’artista ha bisogno del numero, della misura, della legge matematica come armatura e armamentario per dare forma al caos a cui la sua creatività non può fare a meno di attingere.