Osborne, la festa è finita, l’incubo non ancora
Narrativa inglese Ricchi e litigiosi inglesi, per Lawrence Osborne i tipici esponenti dell’esotismo effimero, accorrono al ricevimento di una coppia gay, in una villa nel deserto: «Nella polvere»
Narrativa inglese Ricchi e litigiosi inglesi, per Lawrence Osborne i tipici esponenti dell’esotismo effimero, accorrono al ricevimento di una coppia gay, in una villa nel deserto: «Nella polvere»
«Tutto succede alle feste»: lo scriveva Jane Austen e al nostro orecchio potrebbe suonare al più come una promessa. Al tempo della giovinezza, andare a una festa significava fare il pieno di emozioni e di speranze, sempre o quasi legate alla possibilità di un incontro. Solo con l’età della noia subentrata, quando le disillusioni hanno già sottratto aspettative, diventa davvero possibile cogliere il senso profondo di queste parole, perché è quando le feste cominciano a somigliare a un «affascinante incubo» che si rivelano un osservatorio ineguagliabile della natura umana.
Ad associare le feste a un incubo è Lawrence Osborne, che si dichiara fortemente ispirato da film di Antonioni e Fellini come L’eclisse o La dolce vita in cui alle feste sono riservate scene importanti. Piccoli esperimenti sociali, momenti in cui le conversazioni si fanno più teatrali che mai e sature di implicazioni sessuali, le feste inducono l’impellenza di non passare inosservati, magari anche a costo di non andarci proprio, alla festa, o di presentarsi in ritardo: è quanto accade in Nella polvere (traduzione di Mariagrazia Gini, Adelphi, pp. 285, € 20,00).
Un momento di crisi
In apertura del romanzo, una coppia di inglesi, gli Henninger, noleggia un’auto per andare nel deserto, in Marocco. Osborne è un espatriato, che vive da sempre lontano da dove è nato, un nomade per vocazione che ambienta le sue storie in angoli di mondo sempre diversi, il Marocco – come in questo caso – oppure Bangkok o la Cambogia o Macao, come accadrà nei libri successivi. Sebbene arrivi a noi soltanto ora, Nella polvere risale infatti a una decina di anni fa: è il secondo romanzo di Osborne ma è lecito considerarlo alla stregua di un esordio, perché il primo vide le stampe molto prima, nel 1986, e mostrava uno scrittore acerbo, alquanto diverso. Ania Malina era infatti una sorta di romanzo storico dal sapore vagamente lolitesco e malgrado raccontasse di un viaggio, un tour nel Mediterraneo, era comunque sprovvisto di quell’elemento, diventato poi imprescindibile per Osborne, che è l’esotismo effimero del viaggiatore d’oggi, lo sradicamento salottiero del turista. Mancava inoltre di un tratto ancor più connotante dell’autore inglese: il conflitto di prospettive tra chi viaggia per svago o noia e comunque per scelta e chi invece o vi è costretto dal bisogno o non viaggerà mai perché non ne ha possibilità.
Come la festa, il viaggio rappresenta per Osborne un momento di crisi in cui la vita del ricco marca la sua distanza da quella del povero e si mostra nelle sue contraddizioni con esiti sempre letali. La festa nel deserto cui sono diretti gli Henninger ha luogo nella grande casa di una coppia gay, che organizza spesso raduni per amici internazionali, alcuni dei quali arrivano in elicottero. Ci sarà tutto l’indispensabile: fuochi di artificio, discoteca all’aperto, finte palme d’argento, graziose ragazze francesi, giovanotti locali abbigliati come pirati, fichi, orchidee bianche, cocaina a volontà, miele con la cannabis. L’inferocita gente del posto non considera tutto ciò una festa bensì l’orgia di infedeli provvisti di Jaguar. In quegli stessi paraggi un tempo era stanziata la Legione Straniera, ora vi dimorano quelli che i marocchini chiamano les visiteurs con i loro ospiti, a implicare la convinzione o almeno la speranza «che prima o poi, se ne sarebbero andati con la stessa istantaneità di quando si erano presentati».
Allo sguardo dei marocchini
Che siano ricchi e spendano i soldi con incoscienza e disinvoltura torna certamente utile, ma non basta a redimerli agli occhi dei locali, e non tanto per le loro abitudini sessuali, sulle quali ci sarebbe comunque «molto da dire», bensì per quello «starsene sulle loro terrazze, la notte, a guardare le stelle coi binocoli», per quel loro «dormire, ogni tanto, tutto il giorno fino al tramonto» e andarsene poi in giro al calare della sera «sui vecchi sentieri con ghirlande di fori e secchielli pieni di ghiaccio». Del resto, i ricchi visiteurs non nutrono sentimenti tanto migliori verso i locali: non fanno mostra di disprezzarli, perché l’etichetta contemporanea non lo consente, ma la loro apparente tolleranza è spesso ipocrita e carica di sussiego, di quel malcelato senso di superiorità che è proprio dell’occidentale evoluto in mezzo ai selvaggi.
Osborne è un maestro nel mostrare le fibrillazioni sotterranee e costanti tra questi due mondi, nell’orchestrare scontri di civiltà sempre sul punto di esplodere. Un incidente anche minimo è sufficiente a risvegliare diffidenze reciproche, rancori antichi e mai sopiti, incomprensioni irrimediabili. A innescare la scintilla sono proprio gli Henninger: mentre vanno alla festa – beccandosi di continuo perché il loro è un matrimonio che sta colando a picco – investono e uccidono un giovane del posto che se ne sta lungo la strada in mezzo al nulla a vendere fossili. Non sapendo bene cosa fare, lo caricano in macchina e lo portano alla festa. L’idea si rivelerà ovviamente infelice; per di più, David Henninger, l’investitore, non nasconde il suo disprezzo per i musulmani, e detesta la codardia, il perbenismo sinistrorso che sensi di colpa decennali hanno instillato nei bianchi: «questa gente che viveva nella merda in mezzo al Sahara» è impossibile – crede – arrivi mai pensarla come lui. Tanto l’ambientazione quanto il fatto che il romanzo è tra le tante altre cose il ritratto di una coppia allo sfascio, riportano alla mente Il tè nel deserto, peraltro espressamente evocato proprio dal personaggio di David.
Difficile poi non pensare anche alla congrega di scrittori anglosassoni che nel secondo dopoguerra hanno transitato tra Tangeri e Casablanca, dai beat a Capote, a Tennessee Williams, a Vidal. Più in generale, si è tentati di ricondurre l’opera di Osborne alla grande letteratura espatriata, che trova in autori come Graham Greene il proprio canone. Tuttavia, e sebbene certi riferimenti siano tutt’altro che peregrini, Osborne porta molto oltre quella tradizione e non potrebbe essere altrimenti, visti i cambiamenti degli ultimi decenni. In particolare, quella fiacchezza occidentale che troviamo in romanzi come Nella polvere è di un genere nuovo.
Il destino dei reduci
I bianchi di Osborne hanno ormai perduto il fascino decadente dell’espatriato: non sono che turisti e questo li rende decisamente più patetici e irrilevanti dei loro predecessori. Esposti a errori continui, a una superficialità dalle pieghe sinistre e per molti versi parente del morboso moralismo di Patricia Highsmith, questi visiteur del villaggio globale contemporaneo incarnano il destino dei reduci dalla festa finita: non resta loro niente altro se non i soldi, e i soldi possono essere un problema, almeno a quanto dice la gente del posto.
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