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Orwell, dubbi modernisti su una patina di orientalismo

Orwell, dubbi modernisti su una patina di orientalismoMary Adshead, «Dopo cena in un ristorante di Coventry», 1941

Novecento inglese In «Giorni in Birmania» si intrecciano l’elemento saggistico e il racconto più efficacemente che in «Senza un soldo a Parigi e a Londra»: i primi due libri di Orwell, ritradotti da Newton Compton

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 24 luglio 2022

Rientrato nel 1927 dagli anni trascorsi al servizio della Polizia Imperiale Indiana, Eric Arthur Blair affrontò una serie di cambiamenti, soprattutto ideologici, che lo avrebbero portato al mestiere di scrittore: cambiamenti sanciti più tardi anche dalla scelta del nom de plume, George Orwell. I primi passaggi di questo mutamento sono legati alla tribolata pubblicazione dei suoi primi due libri, l’uno datato 1933, Senza un soldo a Parigi e a Londra (pp. 256, € 9,90) l’altro del 1935, Giorni in Birmania (pp. 320, €9,90) ritradotti entrambi da Andrea Binelli per Newton Compton, ciò che favorisce la rimessa a fuoco dello scrittore inglese, del quale l’anno scorso erano usciti di nuovo molti dei suoi testi più noti, mentre era stata tralasciata la produzione saggistica più eterodossa.

Strade poi abbandonate
Cercare nei primi testi di Orwell i germogli delle sue considerazioni più mature sulla dittatura, sulle divisioni classiste della società, sulla cruciale importanza dell’istruzione per contrastare le ingiustizie politiche, è una ovvia tentazione che rischia tuttavia di appiattire questi testi sulla produzione successiva, negando loro l’originarietà con la quale suggerivano strade più tardi abbandonate.

A differenza di quanto avviene in Senza un soldo a Parigi e a Londra, Orwell intreccia efficacemente alla narrazione di Giorni in Birmania l’elemento saggistico, o meglio riflessivo: sente il suo romanzo come un frutto tardivo del naturalismo, in parte grazie alla trama complessa e alle dettagliate descrizioni dell’ambiente e delle motivazioni. Spinte moderniste ricorrono tra le pagine in cui Orwell mette in discussione i punti di vista narrativi e laddove rivela – come scrive Andrea Binelli – «l’imperativo che porta la voce narrante a demistificare con fulgida abnegazione le basi materiali del consueto, le ragioni per cui lo scontato appare tale».

Il romanzo si propose a Orwell come l’occasione per riflettere sullo sfruttamento coloniale da parte di uomini privi di scrupoli, uomini «senza Dio», tenuti insieme dal whisky e dall’ingordigia. Vi si raccontano le storie intrecciate di John Flory, un trentacinquenne inglese funzionario in India, e di U Po Kyin, un birmano che ha come suo unico scopo quello di elevare la propria posizione sociale, obiettivo per il quale non rinuncia all’arma della cospirazione, in particolare ai danni dell’amico di Flory, il medico Veraswami, senza fermarsi di fronte a strumentali spargimenti di sangue. Ad accomunare queste storie interviene l’interesse per il meccanismo attraverso cui vengono costruite le false notizie, descritto nei minimi particolari, soprattutto per quanto riguarda il complotto orchestrato da U Po Kyin, ciò che permette al lettore di avvertire la disperazione rassegnata di Veraswami e sentire il rumore delle pareti che si chiudono su di lui, non lasciandogli apparentemente alcuna via di fuga dalla disgrazia sociale.

La sua sola chance è l’entrare a far parte, in quanto primo membro non inglese, del Club degli Europei, vero centro del potere. Può riuscirci solo grazie all’amico Flory, un «Amleto di provincia», del quale gli altri colonizzatori parlano come fosse un bolscevico, ma che rivela in realtà una indole tutt’altro che rivoluzionaria, almeno fino ai drammatici eventi del finale. Sebbene genuinamente interessato alla cultura del posto, Flory è attratto dalla scialba Elizabeth, una inglese alla deriva e superficiale, incapace di empatia nei confronti dei nativi.

Se i personaggi maschili rivelano la grande cura di Orwell nel rappresentare le diverse tonalità della condizione coloniale, nei personaggi femminili lo scrittore inglese mostra di più la corda, rendendoli strumenti narrativamente funzionali ma inconoscibili e spesso stereotipati.

Decadenza opprimente
L’atmosfera asfissiante dei giorni birmani si addensa nelle pagine con immagini di decadenza opprimente, che spesso strappano un sorriso amaro e liberatorio: per esempio quando Orwell descrive un funzionario inglese che rifiuta la zanzariera perché «Di notte padrone troppo ubriaco per fare caso a zanzare. Al mattino zanzare troppo ubriache per fare caso a padrone». Il nitore dell’Orwell saggista emerge in queste pagine solo a tratti, a vantaggio di una narrazione che ci mette di continuo di fronte alla impossibilità, per un forestiero, di comprendere davvero cosa accada nelle comunità locali, ai singoli individui che subiscono le manovre imperiali britanniche. Sebbene questo derivi dal fatto che Orwell intende descrivere solo quanto conosce (e la rappresentazione incerta dei movimenti di rivolta ne è una prova), il principale effetto ottenuto sembrerebbe quello di scavare al centro del romanzo un buco nero insondabile, in parte dovuto alla patina di orientalismo, in parte al dubbio modernista che lo innerva. La narrazione che va avanti a strappi, e i forestierismi di cui essa è punteggiata in ogni pagina, restituiscono una opacità che la traduzione rende con convinzione, rivelando in Giorni in Birmania un romanzo da rileggere non solo per apprezzarne il peso nella storia letteraria e politica, ma anche per approfondire, da una prospettiva inedita, il dialogo con il suo autore, ingombrante e spesso banalizzato.

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