L’orso è un animale che ha sempre avuto un posto particolare nell’immaginario umano. Il bipedismo, la misteriosa ibernazione e le prolungate cure parentali che la femmina offre ai cuccioli sono alcuni dei tratti, delle affordances, che hanno stimolato la fantasia umana fino a farne una sorta di iper simbolo. Mutevole a seconda della cultura e delle latitudini, dei contesti urbani o rurali, politici o religiosi.
Anche se ancora parzialmente avvolto nella nebbia, il mondo dell’orso e degli altri animali raffigurati nelle grotte paleolitiche ci parla di un antico sistema metafisico, di un pensiero mitologico e cosmogonico solo in parte comprensibile, ma in cui tutti i soggetti avevano un ruolo preciso, uomo compreso. In questi mitici scenari rinveniamo tracce di antichi rituali di caccia tesi ad attrarre o allontanare magicamente gli esemplari appetibili o pericolosi. Una sorta di malìa vodù, con tanto di scalfitture rituali al posto di spilloni.
Più avanti e in più gentili latitudini, il mondo greco preferisce dell’orsa il suo aspetto materno di kourotrophos, nutrice di bambini. Eccezionale madre divina che cura i suoi cuccioli e li difende fino alla morte, ogni bambina ben educata ateniese doveva «fare l’orsa» (arkteuein), conoscere la propria natura animale, stare con Artemide, prima di convolare tra le braccia di Venere, trovare marito, essere a sua volta kourotrophos.

NON COSÌ NEL MONDO ROMANO, che sembra avere verso l’animale un’attenzione leggendaria tutto sommato scarsa. Un’attenzione che ritroviamo invece negli anfiteatri, dove vere e proprie scenografie mitologiche erano allestite per i ludi e le venationes, combattimenti tra animali o tra uomini e animali. Il commercio e l’eccidio di orsi che produssero questi ludi, ne decretarono l’estinzione in molte provincie dell’Impero, grazie anche a un prelievo organizzato su basi militari: la Legio I Minervia, di stanza a Colonia, aveva catturato in sei mesi, probabilmente quelli invernali, una cinquantina di orsi e nella vicina XXX Vetera, nella Germania Inferior, era presente anche un ursarius, figura che l’orso incontrerà spesso lungo tutta la sua storia.
In un simbolismo non immediatamente comprensibile, le venationes mettevano in scena negli anfiteatri il dominio di Roma sul mondo: ricordavano agli spettatori le zone di provenienza, le difficoltà e la forza impiegata per soggiogare le singole tribù conquistate.

ANCORA SIMBOLO di vittoria, ma questa volta sul paganesimo, sono le tante storie di santi che vincono, sloggiano, ammazzano, addomesticano i vari orsi feroci nelle agiografie medievali. Sono Vitae che parlano di affermazione della fede cristiana, certo, ma registrano fedelmente anche i cambiamenti economici e di mentalità delle varie epoche. Nel mondo romano, con l’economia della Villa, il bosco, il saltus, viene vissuto come elemento estraneo, come altro da sé, e così i suoi occupanti, che nelle Passiones e nelle persecuzioni contro i cristiani diventano ursi ferocissimi, violentissimi o immanissimi, spesso circondati da esotiche ferae Africanae.

IN GENERE, IL MIRACOLO consiste nell’addomesticamento della belva da parte del santo, equiparato così a quelle figure di mansuetudinarii o ursarii che tanta parte ebbero nei giochi circensi romani e in seguito nella vita di piazza medievale. Li si potrà ancora oggi incontrare tra le rumorose strade dell’India e in quelle più silenziose della Romania, o lungo l’afoso lungomare di Varna, in Bulgaria, insieme ai loro Dancing bears, gli orsi ballerini.
Estinto l’Impero, con l’avvento dei regni romano-barbarici, la caccia, l’allevamento brado del bestiame, la raccolta dei suoi prodotti, divengono fondamentali, e il rapporto con gli abitanti del bosco muta. Cambiamento puntualmente registrato anche nelle agiografie, dove l’orso da esotico diviene endotico.

SAN COLOMBANO entra in una grotta e vi trova i soliti orsi. Senza scomporsi ordina loro di andare via, con una mitezza inaspettata qualche secolo prima. Ma siamo nel VII secolo, epoca in cui uomini e orsi frequentavano e si approvvigionano nelle stesse foreste.
Analogamente, secondo una leggenda, san Romedio arriva da Sanzeno a Trento a cavallo di un orso, visto che quest’ultimo aveva pasteggiato con la sua precedente cavalcatura.
Intorno al Mille un po’ dappertutto in Europa gli umani ricominciano a coltivare le pianure e ad allargarsi, erodendo lentamente tutti gli spazi riservati alla fauna selvatica, la quale a sua volta reagisce ingaggiando una feroce lotta per la sopravvivenza, a volte intaccando gli spazi riservati agli uomini. Nasce allora quella mitologia del terrore della quale farà le spese soprattutto il lupo, ma anche l’orso. Nella Vita di Giovanni Gualberto, fondatore del cenobio di Vallombrosa, quando un orso preda il bestiame il santo non ha tentennamenti: «Va’ e ammazzalo!» ordina a un confratello.
Iniziata con gli antichi naturalisti, proseguita con gli enciclopedisti e i bestiari medievali, resa popolare dall’agiografia, per l’orso si apre così la strada della demonizzazione, termine ambiguo che in realtà occulta più che spiegare.

QUESTE VECCHIE STORIE di paurosi attacchi dell’orso al bestiame o alle cavalcature dell’uomo, raccontano di società in crisi da espansione che ricercano e ostentano una «cultura della sicurezza» che si prefigge di schiacciare il reietto di turno.
Come scrive Pierre Clastres (L’anarchia selvaggia, Elèuthera, 2015), «per poter affrontare efficacemente il mondo dei nemici, la comunità deve essere unita, omogenea, senza divisioni. Di converso, per esistere indivisa ha bisogno della figura del Nemico». Ora, questo nemico non dev’essere necessariamente della stessa specie, genere o colore della società «a rischio».
Come per le accuse di stregoneria, i processi agli animali o agli eretici, le comunità europee, grandi o piccole che siano, cercano sempre di unirsi e rafforzarsi utilizzando la politica dell’insicurezza. Credere o far credere di trovarsi in pericolo, continuamente sull’orlo di un burrone, è strategicamente più conveniente per chi offra messaggi di pacificazione, sicurezza, unità identitaria.