«Questo signor Bernini è il luogo dove veder voglio, e dove veder si deve la vostr’opera, se da me bramate il parere; perché questo è il punto di sua veduta (…) queste statue esser dovrebbero un buon palmo più grandi». Questo sarebbe stato il consiglio di Andrea Sacchi dopo aver visto il primo modello della Cattedra nell’abside di San Pietro: l’altare doveva essere visto già dall’ingresso della basilica, non solo dall’area presbiteriale, e Gian Lorenzo ripensò completamente l’invenzione per tenere conto del «punto di sua veduta».

Lungo tutta la storia dell’arte occidentale questo tema ha spesso avuto un grande peso: è ben noto che la critica ritiene che già le sculture tardo duecentesche di Arnolfo di Cambio siano state realizzate calcolando persino le correzioni ottiche a cui sarebbero state sottoposte, e il tema diventa ancora più cruciale quando si tratta di ricollocare o riallestire queste opere. È il caso del Monumento funebre De Braye di Orvieto, smontato e rimontato: a quale altezza esattamente si deve porre la statua del giacente, nella chiesa, per rispettare le intenzioni di Arnolfo?

E se l’opera in questione è musealizzata? Le pale d’altare che, soprattutto in epoca napoleonica, vennero rimosse dalle chiese per essere portate al Louvre, o alla Pinacoteca di Brera, furono esposte senza rispettare quelle che erano le altezze, e più in generale le condizioni in cui si trovavano originariamente, anche perché l’obiettivo era proprio quello di assicurarne una maggiore leggibilità e fruizione a un pubblico che fosse il più ampio possibile.

Donatello, “Giuditta e Oloferne”, part., 1453-’57, Firenze, Palazzo Vecchio, Sala dei Gigli

E anche oggi le mostre sono spesso l’occasione per vedere meglio dipinti che generalmente in chiesa non si possono osservare altrettanto bene, si pensi al Trionfo di Giobbe di Guido Reni, approdato nell’Ottocento a Notre-Dame a Parigi, che mai si era potuto godere appieno prima della recente, splendida mostra monografica del Prado. E personalmente, sarei felice che il superbo Polittico Averoldi di Tiziano nei Santi Nazaro e Celso di Brescia fosse stato musealizzato in passato (magari si può farlo ora?): si tratta di un capolavoro che ha pochi confronti in tutta la storia della pittura di età moderna, e a differenza dell’Assunta dei Frari a Venezia – che, sia detto per inciso, in passato fu anch’essa a lungo in un museo, alle Gallerie dell’Accademia – non si vede affatto bene in chiesa; chiesa che è stata infatti completamente trasformata, più volte, dall’epoca in cui venne dipinto, e dove in origine non si trovava certo a sette metri di altezza come ora.

Da poche settimane ha riaperto il museo di Orsanmichele a Firenze, magnificamente riallestito dopo oltre un anno di lavori. Nella sala sopra la chiesa erano state via via messe al riparo dagli agenti atmosferici le preziose statue in bronzo di Ghiberti, Donatello, Verrocchio e Giambologna originariamente all’esterno, nelle nicchie del pianterreno, dove sono state sostituite da repliche.

La novità è proprio nel punto di vista: ora sono state sollevate su dei basamenti e collocate contro pareti bianche per restituire quasi per intero quella che era la percezione delle opere in origine.

Il caso più significativo è forse quello dell’Incredulità di san Tommaso, nel quale Verrocchio riuscì genialmente, nello spazio limitato di una nicchia, a inserire due figure, suggerendo allo spettatore la presenza di due statue a tutto tondo, laddove si tratta quasi di un’opera di rilievo, cava posteriormente.

Osservare quel capolavoro molto da vicino, anche da dietro, nell’allestimento precedente era forse più impressionante, e l’effetto voluto da Verrocchio si poteva continuare ad apprezzare nella copia messa nella nicchia – quella vera, peraltro – all’esterno.

Nell’epoca dell’(infinita) riproducibilità tecnica dell’arte, si va al museo anche per avere l’emozione di un rapporto diretto, ravvicinato, con l’opera; magari anche falsato, scorretto, ma vivo. Al Bargello, fino a non molti anni fa, il David di Donatello praticamente si toccava, e in un museo – purtroppo o per fortuna – mai affollatissimo, si poteva ancora fare: certi particolari, come quello dell’ala che sale lungo la coscia destra dell’eroe, erano quasi una sorpresa, perché difficilmente il pubblico dei non addetti conosce quell’opera così bene, attraverso foto ravvicinate, professionali. Ora il bronzo è issato su una colonna antica, a sua volta su un altro basamento moderno, che lo porta all’altezza alla quale lo aveva previsto il suo autore, e lo sguardo di David rivolto verso il basso acquista il suo pieno significato.

Non si può avere tutto nella vita, e dipende dai punti di vista, appunto: è meglio ammirare il bronzo come se fossimo Cosimo de’ Medici, il suo committente, che nel 1450-’60 attraversa il cortile del palazzo di via Larga, o come se fossimo, invece, E.M. Forster che visita Firenze all’inizio del Novecento, quando l’opera già si trovava al Bargello (a volte nel semivuoto magnifico salone di Donatello sembra di essere ancora in A Room with a View)?

La questione si fa particolarmente spinosa a proposito di un altro eccezionale bronzo donatelliano, la Giuditta e Oloferne. Dal 1988 è esposta nella Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio, ma sempre sopra la colonna di marmo sulla quale si trovava quando era posta di fronte al medesimo palazzo, a circa quattro metri di altezza.

Secondo l’autorevole ricostruzione di Francesco Caglioti questo basamento ha sempre accompagnato il capolavoro in tutte le sue peregrinazioni, da quando si trovava nel giardino posteriore del suddetto palazzo di via Larga, ma un conto era vedere la statua in un esterno, un conto è in un interno: oggi, francamente, girando per la Sala dei Gigli non si riesce mai a trovare un angolo da dove apprezzare bene il gruppo. E in ogni caso si deve poi tornare a casa a sfogliare magari proprio la monografia di Caglioti per vedere il gruppo fotografato non troppo dal basso, per osservare il sapiente incastro delle figure, o i rilievi della base bronzea, o anche le caratteristiche della fusione (se quelle foto si fanno, forse, è perché è interessante vederli questi particolari).

Le statue scolpite sempre da Donatello per il primo ordine del Campanile di Giotto, a partire dall’incredibile Abacuc-Zuccone, da quasi un secolo sono state sostituite da copie e si ammirano nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ma non certo a venti o più metri d’altezza; e per fortuna! Si immagina che se i Greci arrivassero mai a ottenere la restituzione dal British Museum dei marmi di Fidia, non solo (ovviamente) non li ricollocherebbero sul Partenone, ma nemmeno all’altezza dove si trovavano originariamente.

Si potrebbe argomentare che per tutte queste opere non può essere sempre valido lo stesso discorso, ed è senz’altro vero. La casistica, poi, è infinita. L’affresco di Pisanello con San Giorgio e il drago in Sant’Anastasia a Verona fu staccato già a fine Ottocento per essere restaurato, ed è stato esposto alle mostre sull’artista, nel 1958 e nel 1996; la decisione di ricollocarlo al suo posto, veramente molto in alto, sull’arco sopra la cappella Pellegrini, dove certamente non si può vederlo bene, è stata opportuna? Le Allegorie di Amore di Veronese sappiamo che provengono da un soffitto, e gli scorci erano stati pensati in rapporto a questo punto di vista, ma le vediamo da sempre sulle pareti della National Gallery e siamo in grado di apprezzarle.

Bernini, lo si è detto, dava la massima importanza al punto di vista, e l’Apollo e Dafne era stato pensato per essere sistemato contro una parete del Casino Borghese, praticamente un museo ante litteram già al tempo in cui lo aveva allestito il cardinale Scipione: poi nel 1785 venne collocato al centro della ‘sua’ sala, e gli altri capolavori di Gian Lorenzo (Enea e Anchise, David, Plutone e Proserpina) lo hanno via via seguito.

Quell’intervento di isolamento è stato giudicato «tatticamente ‘sbagliato’», e chissà che un giorno qualcuno non rimetta i gruppi come si trovavano nel Seicento; mi auguro di no, perché anche la storia della recezione ha un suo peso, e perché è innegabilmente un piacere, oggi, girargli intorno.

I Prigioni di Michelangelo al Louvre non sono certo messi contro una parete, bensì liberi nello spazio di una grande galleria, sebbene sappiamo tutti che il suo autore li aveva pensati per le nicchie del monumento funebre di Giulio II.

Il David sempre di Michelangelo era originariamente destinato a essere posizionato su uno dei contrafforti della cupola di Santa Maria del Fiore, sempre ad almeno venti metri d’altezza, ma appena fu terminato, si capì che era meglio dargli ben altra sistemazione.

Una commissione comprendente tanti dei maggiori artisti del tempo (da Botticelli a Leonardo) venne incaricata di studiarla, e alla fine fu collocato di fronte a Palazzo Vecchio, andando a sostituire proprio la Giuditta di Donatello: un rispetto iper-filologico del punto di vista previsto dall’artista avrebbe fatto finire cotanto capolavoro su quel contrafforte. Oggi direi che tutti condividano il punto di vista di quella commissione.