Orio Caldiron, tra Cinecittà e Hollywood
Il libro «Sorprese di una grande stagione», edito da Falsopiano
Il libro «Sorprese di una grande stagione», edito da Falsopiano
Non ama definirsi uno storico Orio Caldiron, quanto piuttosto un saggista e un critico. Eppure cos’è il suo Sorprese di una grande stagione. Cinema, storie e miti tra Cinecittà e Hollywood (Falsopiano, 292 pagine, 22 euro), se non una imponente e peculiare storia del cinema che intreccia, a partire da un anno chiave come il 1948, esplorato sulle due sponde concomitanti e incrociate dalla guerra e dal dopoguerra, Cinecittà e Hollywood? La storia del cinema, finché e se il cinema avrà ancora una storia da raccontare, per Cadiron non è infatti quella da scrivere o riscrivere in maniera organica e onnicomprensiva; bensì un tracciato fatto di studi di singoli casi che spetta al lettore/spettatore seguire o sbizzarrirsi a intrecciare e ricomporre come un puzzle dove ogni tassello ne richiama altri; mentre mai e poi mai sarà possibile chiudere in uno schema a senso unico.
Gioca dunque di sponda con cognizione di causa l’autore di Sorprese di una grande stagione, padovano di origine e romano di adozione, classe 1938, già prestigioso professore ordinario di Storia e critica del cinema alla Sapienza di Roma e presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Perché questo percorso inequivocabilmente storiografico può permettersi di seguirlo non soltanto per ragioni anagrafiche quanto per prestigio e autorevolezza dando del «tu» ad autori e divi della «grande» appunto, trascorsa e irripetibile «stagione» cinematografica del titolo. La premessa è che non si può e non si deve monumentalizzare il cinema italiano di settant’anni fa, perché il piedistallo non giova a ogni buon proposito costruttivo, ma ricercarne le ragioni profonde mediante un sistema di destini incrociati che si orchestra come una sinfonia in quattro movimenti distribuiti nel volume nelle sezioni «Passaggi», «Storie», «Scritture» e «Miti».
Nel primo slot, «Passaggi», sfilano in buon ordine, come generali hollywoodiani o padri fondatori senza tempo e stretti nel concerto di problematiche e stili concomitanti David Wark Griffith ed Erich von Stroheim, seguiti dagli eredi del cinema sonoro e a maggior ragione musicale, poiché condizionati dalla svolta epocale de Il cantante di Jazz (1927) di Alan Crosland, quindi da Vincente Minnelli e Stanley Donen; poi è il turno dell’Ernst Lubitsch non soltanto americano, quindi di Michael Curtiz, John Ford, Orson Welles, Alfred Hitchcock, o dei protagonisti maggiore della Hollywood sul Tevere, da Joseph Leo Mankiewicz a King Vidor e John Huston; dopodiché tocca a George Axelrod, nonché a Clint Eastwood e Woody Allen che ancora fanno sventolare la bandiera di questo imponente progetto di lungo corso. Il successivo controcampo tricolore alterna una pattuglia che interagisce e alle volte reagisce al blocco precedente, ed è composta da figure dove non conta il grado nella gerarchia la capacità di seminare fattori strutturali di lunga durata: la «bella brigata» d’altri tempi, o la «bella compagnia», per dirla con Caldiron, allinea e ricongiunge Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Luigi Zampa, Carlo Lizzani, Pietro Germi, Antonio Leonviola, Sergio Leone, Sergio Corbucci, Valerio Zurlini, Mario Monicelli, Ettore Scola e Federico Fellini.
Abbattuti i confini tra alti e bassi, e messi d’accordo autori a vario titolo, film d’autore e diversamente d’autore, ovvero di genere, Caldiron prosegue la sua marcia con le «Scritture» dove riserva una delle tante «sorprese» saldando letterati e cineasti; poiché in un novero di scrittori anche filmicamente fertili quali Cesare Pavese, Attilio Bertolucci, Vitaliano Brancati, Elsa Morante, Ennio Flaiano, Leonardo Sciascia e Dino Buzzati, non possono mancare Suso Cecchi D’Amico e Michelangelo Antonioni con le loro scritture parallele destinate o meno allo schermo. Questo comporta, specialmente sul terreno italiano, una dieta di oggetti di studio tutti fondamentali, suturando la memoria cinematografica appiattita e stemperata dagli odierni film in sala che solo in quanto campioni nazionali d’incassi decretano nuovi e chissà quanto duraturi modelli.
Ma giunti a questo punto della storia, con i contorni ormai netti della leggenda, non potevano che splendere i «miti», ergo le stelle del firmamento daccapo statunitense. Come in un chiasmo, Hollywood-Cinecittà-Cinecittà-Hollywood, questo libro che per molti versi è una dinamica summa dell’opera di Caldiron e un’autentica «camera verde» per gli spettatori di ieri, oggi e domani, ripercorre il sentiero dorato di Greta Garbo, Fred Astaire, Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Grace Kelly, Elizabeth Taylor, Meryl Streep, Walter Matthau, Stanlio e Ollio.
La selezione di questi tanti contributi funziona dunque da vademecum e probabilmente, nella sua agilità discorsiva, da perfetto manuale per ripercorrere una vicenda dove ogni tassello è indispensabile e moltissimi altri ne evoca o richiama direttamente o indirettamente per un effetto domino illimitato. La circostanza che i singoli testi siano stati concepiti e dati alle stampe in tempi diversi non impedisce di cogliere nell’originale ordito attuale un disegno volto a una riflessione di fondo sul destino del cinema in generale, dove il moderno inteso nella sua verticale forza dirompente è stato soppiantato e contagiato da un’idea orizzontale di contemporaneo come unico e non sostenibile parametro di giudizio, gradimento e consenso. Nessuno di questi «frammenti di un discorso amoroso» è chiaramente oggi risarcibile, né si intravede all’orizzonte niente che possa reggere anche per modo di dire il confronto. «Sorprese di una grande stagione», sin dal titolo, lascia splendere solo «la grande stagione» con le sue autentiche «Sorprese». Ma è lecito leggervi, più o meno tra le righe, forse anche con una punta di sdegnosa e intransigente commozione retrospettiva, una considerazione di fondo che asseconda di fatto le parole profetiche, infine più ironiche che tragiche, della diva Norma Desmond interpretata da Gloria Swanson in Viale del tramonto (1950): «Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo!».
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