Nell’arco di un biennio (2016-’18) l’Opera della Primaziale pisana ha attuato e completato un cantiere di restauro dei pennacchi con i quattro Evangelisti e dell’Assunzione della Vergine, dipinta a olio nell’intradosso della cupola del Duomo da Orazio Riminaldi tra il 1627 e il 1630 e debolmente terminata dopo la sua morte dal fratello Girolamo. L’adozione di un medium oleo-resinoso, diverso dall’affresco, fu privilegiata dal pittore per ovviare ai problemi provocati dalle caratteristiche di una struttura priva di intercapedine e, di conseguenza, maggiormente soggetta ai ristagni di umidità. Questo accorgimento non ha impedito l’avvio di processi di desquamazione della pellicola pittorica, che hanno richiesto nel corso dei secoli ripetuti interventi conservativi. A conclusione del restauro odierno, che ha restituito l’opera in migliori condizioni di leggibilità, i protagonisti impegnati nell’impresa hanno ideato una mostra che intende ripercorrere la vicenda professionale del pittore: Orazio Riminaldi Un maestro pisano tra Caravaggio e Gentileschi, a cura di Pierluigi Carofano e Riccardo Lattuada, Palazzo dell’Opera del Duomo di Pisa, fino al 5 settembre prossimo.
Nato a Pisa nel 1593, Riminaldi compì il suo apprendistato a Pisa, dapprima presso Ranieri Borghetti, un artista di modesta qualità, e successivamente nella bottega di Aurelio Lomi, rientrato da Genova nella sua città natale nel 1604. Tuttavia, l’apporto di quel magistero non sembra esser stato decisivo per l’esordiente artista. Questi, probabilmente agli inizi del secondo decennio del Seicento, «desideroso di perfezionarsi nell’arte della pittura se n’andò a Roma» (Filippo Baldinucci) presso il conterraneo Orazio Lomi Gentileschi, fratello di Aurelio. Nell’Urbe, dove nel 1624 arrivò a ricoprire la carica di censore nell’Accademia di San Luca e rimase essenzialmente sino al 1627, Riminaldi elaborò una cultura pittorica composita e personalissima. Tale sintesi fu originata dall’impatto con il naturalismo caravaggesco, temperato nei contrasti chiaroscurali; dal contatto con i pittori emiliani – tra i quali i primi biografi segnalano specialmente il Domenichino – e dallo studio intrapreso sulla statuaria antica.
La mutuazione di soggetti e composizioni di Michelangelo Merisi è dimostrata da opere come l’Amore Vincitore (Milano, collezione privata), versione dai chiaroscuri maggiormente modulati e dalle epidermidi del dio meno lustre rispetto alla replica nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti; oppure il Dedalo e Icaro, il cui archetipo autografo (Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art) non si ammira nell’esposizione. In particolare, l’ostentazione delle membra tornite e nude di Icaro semisdraiato con la testa rivolta verso lo spettatore e con il braccio sollevato rappresenta un omaggio al San Giovanni Battista (Roma, Musei Capitolini), che appartenne fino al 1624 alla collezione di Ciriaco Mattei, per il cui fratello Asdrubale Riminaldi eseguì il Sacrificio di Isacco, convocato in mostra da Palazzo Barberini.
Nel corso del soggiorno romano Riminaldi mantenne saldi rapporti con influenti personaggi della sua città natale. Curzio Ceuli, Operaio del Duomo di Pisa dal 1616, fu il suo vero e proprio mecenate in patria, dal quale ottenne commissioni che offrono gli unici appigli cronologici sicuri per tentare una ricostruzione cronologica del catalogo del pittore. Nel 1620 Orazio ricevette l’incarico di dipingere la tela con Sansone vincitore sui Filistei, che fu terminata due anni più tardi e collocata nella tribuna della Cattedrale, e nel 1623 ebbe il compito di realizzare quella in cui Mosè innalza il serpente di bronzo, ultimata nel 1626 per la medesima sede. Nella prima opera l’articolazione sbilanciata sulla gamba sinistra del personaggio, la levigatezza bronzea delle membra, la costruzione frappata del panneggio che avvolge la figura costituiscono richiami evidenti alla pittura di Guido Reni e Giovanni Lanfranco; nella seconda tela il gruppo in primo piano con l’uomo in lotta con il serpente è scopertamente l’esito di una rimeditazione sul gruppo del Laocoonte. Tali commissioni si inserivano nella campagna di rinnovamento del Duomo, avviata sin dalla fine del Cinquecento per rimediare ai danni prodotti dal devastante incendio del 1595.
Un piccolo pregio della mostra è la riunione di parte del materiale preparatorio dell’impresa della cupola, alla cui fase progettuale Riminaldi iniziò a lavorare sin dal 1627 e nella quale – come anticipato – fu raffigurata l’Assunzione della Vergine assieme ai santi e beati maggiormente venerati dall’agiografia locale. Si tratta del «modello in tela ovato della cupola del Duomo» ricordato in un inventario seicentesco dei beni del fratello, del bozzetto con il gruppo principale dell’Assunta portata in cielo dagli angeli e dell’intensissimo modello in scala reale del capo della Vergine, portato a perfezione ultima nell’epidermide del viso e del collo. I documenti di pagamento conservati consentono di accertare che nella stagione invernale del 1628-’29, cioè nel periodo in cui le temperature rigide pregiudicavano una regolare prosecuzione dei lavori, Riminaldi si assentò per trasferirsi a Roma. Qui dovette aggiornarsi sul moderno correggismo della decorazione a fresco, da poco conclusa da Lanfranco, della cupola della chiesa di Sant’Andrea della Valle, dalla quale derivò la vorticosa composizione a cerchi concentrici sovrastanti, adattata alla conformazione ellittica dell’invaso pisano.
Sfortunatamente, Riminaldi non riuscì a portare a compimento il cantiere: infatti, contagiato dalla peste, morì il 10 dicembre 1630 all’età di trentasette anni, proprio quando – all’apice della fama – veniva richiesto a Napoli per decorare la cappella del Tesoro di San Gennaro e ricercato da Maria de’ Medici alla corte di Francia.