L’inchiesta continua. Di nuovi arresti non ce ne sono ancora, a parte Giovanni De Carlo, che dei 37 era ancora latitante. Ma la sensazione incombente è che una nuova ondata di arresti sia probabile, perché le indagini si avvicinano ora alla Regione Lazio, ed è difficile che un sistema così esteso non sia arrivato anche lì. Il presidente Nicola Zingaretti ha deciso di anticipare i tempi e ha avviato in proprio un’indagine su tutti gli appalti che fanno capo alla Regione, per verificare se le società e le cooperative sociali coinvolte nell’inchiesta figurino anche lì. Per il momento, tutte le gare sono state sospese.

Al Comune, il primo cittadino non ha bisogno di aspettare esiti e verifiche. Il livello e le dimensioni dell’infiltrazione sono già tutte evidenti. E sono arrivate nuove e attese dimissioni: quelle di Luca Gramazio, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, quelle di Giovanni Quarzo, presidente della Commissione per la trasparenza.

Ieri il sindaco Ignazio Marino ha incontrato Matteo Orfini, il commissario incaricato da Matteo Renzi di fare pulizia nel Pd romano, poi, accompagnato dall’assessore al Bilancio Silvia Scozzese, è andato da Raffaele Cantone e si è impegnato a consegnargli in pochi giorni una verifica dettagliata di tutti gli appalti. «Io stesso – ha poi raccontato in tv – sono andato più volte dal procuratore Pignatone, almeno cinque o sei, e ho fatto moltissime denunce». Deve essere vero se il prefetto Pecoraro ha detto forte e chiaro che Marino rischia, che «bisogna garantirne la sicurezza» e a quattr’occhi gli ha spiegato che non può continuare a girare senza scorta come ha fatto sinora. Il sindaco non ha risposto. Ci sta pensando su. Ma alla fine sarà inevitabile rassegnarsi alla scorta.

E’ probabile che almeno gli appalti sin qui individuati come frutto delle manovre di «Mafia Capitale» vengano nei prossimi giorni commissariati. E ieri non è stato nemmeno escluso che si possa arrivare addirittura allo scioglimento del Comune capitolino. Pecoraro lo ha detto senza perifrasi: «Stiamo valutando tutte le carte, poi riferiremo al ministro Alfano», anche se «è prematuro parlarne», ha aggiunto. Il titolare del Viminale fa eco: «Valuterò con attenzione quel che il prefetto proporrà». Poi Angelino Alfano aggiunge che comunque, al fondo, tutto va se non benissimo almeno bene: «Roma non è marcia. Non è sporca. Se qualcuno ha rubato va punito».

Il ministro degli Interni è famoso per parlare a sproposito. Con le dichiarazioni su «Mafia Capitale non si è smentito». Quel che emerge dall’inchiesta in corso è precisamente l’opposto. Nella capitale non c’era «qualcuno che rubava» ma un intero gigantesco sistema di appalti basato sulla corruzione, sulla clientela, sulle manovre torbide. Il fango non aveva lasciato intatto niente, dalle ciclabili ai centri d’accoglienza.

Ma non si tratterebbe di un sistema di ruberie o di mazzette passate al politico di turno per arraffare un appalto lucroso. Se le cose stessero così, Alfano avrebbe ragione. Ma le cose sembrano ben diverse, e proprio il sindaco di Roma lo ha spiegato, di fatto, ieri in tv. L’organizzazione che faceva capo a Carminati non aveva bisogno di minacciare, perché bastava collocare i politici giusti nei gangli vitali. Un’affermazione che significa parecchie cose. La prima è che il sistema degli appalti era già stato ridotto a foraggiatore di clientela a tempo pieno, come del resto nei palazzi tutti sanno e sapevano. Carminati ha solo colto l’occasione offerta dall’ascesa dei suoi ex camerati e dalla possibilità di far pesare le sue conoscenze, senza nemmeno doverle chiamare in causa direttamente.

La seconda conclusione che deriva dal sintetico quadro disegnato da Ignazio Marino (e dalla procura di Roma prima di lui) è forse ancora più inquietante. Proprio perché erano riusciti a controlla l’intero campo, da chi erogava gli appalti a chi li riceveva, incastrare gli indagati del «Mondo di sopra», come lo definisce Carminati, del mondo dei politici e dei colletti bianchi, non sarà facile. In molti casi la legge apparirà formalmente rispettata. Probabilmente anche per questo la procura ha scelto, anche a costo di qualche forzatura, di contestare l’associazione mafiosa, reato che gli permette di intervenire con ben maggiore durezza e sperare così di raccogliere prove decisive anche per quanto riguarda il «Mondo di sopra».