La guerra tra Arcore e Pontida passa per Washington D.C. A Firenze Salvini sventola la bandiera trumpista in preda a esaltazione incontenibile. Non arriva a dire «Chiamatemi Donald» ma ci va a un millimetro: «Hillary ha chiamato miserabili quelli come noi che votavano Trump ma gli americani l’hanno schiaffeggiata. Dopo la Brexit non è più tempo di aver paura. Di qui si parte per andare a vincere». Giusto qualche ora prima Berlusconi aveva preso le distanze in anticipo, adoperando proprio The Donald. Innegabili le analogie tra il nababbo italiano e quello a stelle e strisce, ma senza dimenticare le sostanziali differenze: «Io non interpreto ‘la destra’, rappresento un centro liberale e popolare nel quale sono confluite le migliori tradizioni politiche del nostro Paese». Incluso il «socialismo riformatore».

A piazze già riempite, i «trumpisti» a Firenze con Matteo il Ruggente, i berlusconiani a Padova con Parisi il Moderato, Silvio ricarica con un messaggio esplicito: «Solo noi, non i populismi, possiamo proporre un’alternativa seria ai fallimenti del centrosinistra». Parisi è anche più esplicito: «Noi non siamo quella roba che è a Firenze oggi. La risposta non è Salvini e non sono le ruspe ma la nostra capacità di dare risposta ai problemi del Paese».

Non si tratta solo di modelli differenti e di messaggi antitetici sia sul piano politico che su quello della comunicazione immediata. La divaricazione, quando si passa a parlare di polique politicienne, è anche più macroscopica. Berlusconi esce allo scoperto e propone «una legge elettorale proporzionale a turno unico», spiegando l’abbandono del credo maggioritario con il cambiamento del quadro politico rispetto a vent’anni fa. Allora i poli erano due, oggi sono tre e questo rende impraticabile una legge maggioritaria che non comporti il sacrificio di ogni vera rappresentanza democratica. E’ la stessa formula proposta da Grillo e bocciata da Salvini.

Di leadership Berlusconi non parla, mentre il leghista un nome in mente ce l’ha, il suo: «Siamo pronti». Il silenzio di Berlusconi si spiega facilmente: il ritorno al proporzionale, nella sua visione, presenta anche il vantaggio di depotenziare la personalizzazione della sfida e permette di non mettere in campo il candidato premier prima del voto.

Da ieri, insomma, sono in campo non solo due destre alternative, ma due strategie complessivamente opposte. Salvini, con Giorgia Meloni e con una parte di Forza Italia incarnata da Toti (il cui tradimento ha irritato al sommo grado l’ex Cavaliere) e dalla Santanchè mirano a incarnare la versione italiana del vento anti-sistema che spazza entrambe le sponde dell’Atlantico. Berlusconi considera quella strategia perdente in partenza: prima di tutto perché in Italia quello spazio è già occupato dal M5S, che a differenza di Salvini pesca a sinistra quanto a destra ed è difficilmente superabile combattendo sullo stesso terreno; in secondo luogo perché su quel terreno la sua Forza Italia occuperebbe inevitabilmente una posizione subordinata e ancillare.

L’ex Cavaliere progetta una partita opposta. Non vuol contendere il terreno a Grillo ma a Renzi, e non è detto che il progetto meno realistico sia il suo. Ritiene che la vittoria del No, sulla quale è ormai pronto a scommettere tanto da volersi esporre in tv nelle ultime due settimane di campagna, infliggerà un colpo durissimo alla credibilità del Pd centrista del fiorentino. Il partito azzurro riveduto e corretto in tinta moderata, con Parisi alla guida, dovrebbe a quel punto essere in grado di fronteggiarlo rivolgendosi al medesimo elettorato moderato e spaventato sia da Grillo che da Salvini.

Il proporzionale permetterebbe a un partito del genere di occupare, o almeno di spartire col Pd, il centro della scena politica. All’indomani delle elezioni la santa alleanza di governo tra i due partiti neocentristi sarebbe inevitabile. Dal governo una Fi ripulita dal suo passato descamisado e plebiscitario avrebbe agio di erodere ulteriormente lo spazio del diretto competitor, il Pd.
E in ogni caso Berlusconi si troverebbe nella postazione che da sempre mira a occupare: l’area di governo.