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Ora avanti con la trasparenza sulla grande Rai del precariato

Ora avanti con la trasparenza sulla grande Rai del precariato

Il caso degli stipendi dei dirigenti e delle star La Rai diventa un brand che appalta fuori prodotti intercambiabili con le tv commerciali. Un’intera generazione di quadri aziendali precari si avvia al pensionamento senza alcuna tutela

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 luglio 2016

Il vero scandalo degli stipendi Rai non sta tanto e non solo nell’entità dei compensi dei dirigenti, quanto piuttosto nella precarietà e nella mancanza di certezze dei lavoratori di base. E questi dati non vengono mai pubblicati. I nuovi assunti soprattutto si contengono stipendi da fame, indice della totale svalutazione di ogni attività intellettuale.

La spina dorsale dell’azienda, la struttura portante che sopravvive al Carosello delle nomine politiche, è altrettanto illegale, almeno rispetto alle leggi pregresse degli stipendi dei manager che sfondano il tetto massimo di retribuzione previsto. Intendo dire che la violazione va nella minoranza dei casi per eccesso, ma è illegale nella maggioranza dei casi proprio per difetto. La Rai è una grande azienda costruita anche sul precariato.

I suoi lavoratori intellettuali, la base produttiva, il cognitariato ha vissuto in molti casi una vita da precario e si avvia oggi a concludere, senza pensione, una vita consacrata all’azienda. Qui sta, secondo me, lo scandalo, o almeno lo scandalo maggiore.

C’è una Rai delle star e una Rai del precariato. In effetti chi ci mette la faccia, chi va in video, ha da sempre accesso alle retribuzioni migliori. E ciò in tempi di mercato, è accettabile.

Ma le trasmissioni non ci sarebbero se non ci fosse alla base una struttura aziendale di onesti artigiani che quei programmi costruiscono e mantengono in vita. A loro dobbiamo la parte maggiore del lavoro.

Ci sono trasmissioni sopravvissute a vere ere geologiche dell’azienda. Una di queste è Blob, che fa parte da sempre dell’identità di Rai 3.
Blob, nel tempo ha mantenuto la sua radicale diversità senza bisogno di aggiustamenti. Lo stesso vale per il programma gemello Fuori Orario, con cui condivide molti autori. Persino i titoli di testa sono quelli della sua creazione, e portano ancora i nomi di quelli che non ci sono più.

Ma in questa immobilità si è radicata la precarietà dei suoi realizzatori, stagisti entusiasti agli inizi ed oggi veterani senza prospettive. Sembra impossibile. Un’azienda pubblica come la Rai in un’epoca in cui l’orgoglio aziendale era tutto ed il posto pubblico era ambito perché sicuro, ha mantenuto una massa di lavoratori in uno stato di precariato permanente, con contratti annuali rinnovabili.

Tutto ciò era illegale. Perché, almeno sino a tempi recenti, il precariato doveva essere l’eccezione, non la regola. E doveva inoltre essere propedeutico all’assunzione, soprattutto se parliamo di aziende pubbliche.

Oggi la parola “precariato” non fa più scandalo. Nuove regole del gioco sono state scritte e chi si inserisce nel mondo del lavoro, è avvertito che il suo futuro potrebbe essere quello di uno stagista a vita. Di più. Esiste un’ideologia per cui il posto fisso sarebbe tutto sommato una limitazione, perché impedirebbe quella mobilità che permette di fare esperienze lavorative diverse in contesti diversi. Sono regole scritte da poco, per chi comincia ora. E funzionano come un avvertimento. Ma non erano scritte nel passato e possono ritorcersi contro chi, avendo dedicato una vita all’azienda, rischia di venire escluso da ogni tutela residua, proprio quando la sua età è diventata un ostacolo per trovare occupazioni future.

Quando si scrivono nuove regole, si suole sanare le situazioni pregresse con un condono. Si è ricorsi al condono quando sono state introdotte leggi più restrittive in edilizia e con l’assunzione dei precari della scuola. La Rai, da struttura aziendale autosufficiente che produce in proprio, si sta progressivamente riconvertendo in un brand che appalta all’esterno prodotti intercambiabili con la programmazione delle televisioni commerciali. È una scelta dettata dal mercato e dall’ideologia prevalente di una Rai come azienda commerciale anziché come polo di produzione culturale autonomo. Anche su questa ideologia si potrebbe discutere, ma non è qui il caso. Un’intera generazione di quadri aziendali precari si avvia al pensionamento senza alcuna tutela.

La Rai ha moralmente il dovere di sistemare le loro condizioni pregresse, prima di intraprendere nuove strade. Soprattutto alla luce del trattamento che viene invece riservato ad una classe dirigente “sostanzialmente” precaria in quanto destinata a durare fino alla formazione del prossimo governo, ma autorizzata nel passato, dalla permanenza dei contratti, ad usufruire comunque di alti stipendi, anche dopo essere rimasta senza un vero e proprio ruolo operativo.

Confido che con il nuovo corso, con l’operazione trasparenza, la direzione del personale proceda al censimento e alla regolarizzazione del precariato pregresso.

* L’autore è consigliere di amministrazione della Rai

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