Opinion makers in trincea
La grande guerra Nel 2014 è stato celebrato il centenario dell’inizio del primo conflitto mondiale con la pubblicazione di molti libri che hanno ricostruito la genesi e gli effetti sociali e politici in Europa di quello scontro bellico. Pochi però hanno ricordato «Gli ultimi giorni dell’umanità», il dramma scritto da Karl Kraus, un j’accuse senza tempo contro il militarismo e il nazionalismo
La grande guerra Nel 2014 è stato celebrato il centenario dell’inizio del primo conflitto mondiale con la pubblicazione di molti libri che hanno ricostruito la genesi e gli effetti sociali e politici in Europa di quello scontro bellico. Pochi però hanno ricordato «Gli ultimi giorni dell’umanità», il dramma scritto da Karl Kraus, un j’accuse senza tempo contro il militarismo e il nazionalismo
La redazione della grande tragedia di Karl Kraus sulla prima guerra mondiale, Gli ultimi giorni dell’umanità, è durata circa sette anni. Si tende erroneamente a credere che le posizioni dell’autore sulla guerra fossero, dall’inizio del conflitto e per tutta la sua durata, su per giù quelle del personaggio del Criticone (der Nörgler) che si confronta con l’Ottimista (der Optimist). In realtà, l’orientamento politico di Kraus come il suo punto di vista sulla questione delle responsabilità sono cambiati significativamente. Edward Timms lo sottolinea nella sua biografia: «L’opera non esprime un unico punto di vista dell’autore, ma riflette la radicale svolta nell’orientamento di Kraus sotto il peso degli eventi. La sua concezione iniziale poggiava su una “posizione conservatrice” che non è stata ripudiata prima dell’ottobre 1917. Le successive revisioni riflettono la completa disillusione suscitata in Kraus dall’establishment politico austriaco e il suo sostegno alla causa social-democratica. Il processo di revisione finale è stato influenzato dalla sua reazione contro i cristianosociali tornati al potere con le elezioni del 1920. Così un’opera iniziata nel 1915 da un autore di satire “leale” è stata conclusa da un repubblicano radicale con forti simpatie per il socialismo».
Effettivamente, Kraus ha iniziato la guerra, per così dire, da conservatore piuttosto rispettoso delle potenze tradizionali – la monarchia imperiale, l’aristocrazia, la Chiesa, l’esercito – e l’ha finita da repubblicano convinto, obbligato dagli eventi a trarre una lezione sul fallimento delle autorità in questione e di quella delle élite politiche, intellettuali, morali e religiose in generale.
Kraus stesso ha presentato Gli ultimi giorni dell’umanità come una «tragedia di natura documentaria», nella quale quasi niente – né le circostanze, né i personaggi, né i dialoghi – ha bisogno di essere inventato: «La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi di operetta recitarono la tragedia dell’umanità. (…) I fatti più inverosimili qui riportati sono accaduti veramente; ho dipinto ciò che altri si sono limitati a fare. I più inverosimili discorsi qui tenuti sono stati pronunciati parola per parola; le più crude invenzioni sono citazioni. Le frasi la cui follia è impressa indelebilmente nell’orecchio, si fanno musica della vita. Il documento è raffigurazione; le cronache si levano come figure, le figure finiscono; all’elzeviro è stata data una bocca che lo recita come un monologo; le frasi fatte stanno su due gambe – mentre agli uomini magari ne rimaneva soltanto una».
Chiunque abbia letto Gli ultimi giorni dell’umanità difficilmente ha potuto resistere all’impressione che, come dice Timms, «non è certo un dramma concepito per il silenzio della pagina stampata». Ma è anche, e incontestabilmente, un’opera dalla straordinaria potenza teatrale, se non addirittura «il capolavoro sommerso del teatro del XX secolo».
Il 9 dicembre 1927, durante una conferenza alla Sorbona dal titolo «L’oiseau qui souille son propre nid», Kraus protesta con indignazione contro l’argomento da sempre utilizzato dagli imbecilli contro chi ha il coraggio di dire la verità ai suoi compatrioti. «Affermo, spiega, che durante la guerra si sono resi colpevoli di tradimento contro l’umanità tutti quegli intellettuali che non si siano rivoltati contro la propria patria quando quest’ultima era in guerra – servendosi di tutti gli strumenti di cui un intellettuale dispone. Affermo che lo spettacolo offerto dai cantori della guerra e dai leccapiedi del mio stesso paese belligerante recandosi, a guerra finita, nel paese nemico per tendere alle popolazioni una mano insozzata dal contributo dei loro scritti allo spargimento di sangue – affermo che l’improvviso cambiamento che li porta a fraternizzare con i popoli è ben più ignominioso della loro attività durante la guerra, che tanto vorrebbero rinnegare».
Dato il genere di verità che Kraus, negli anni della guerra, si è imposto di dire ai propri compatrioti, è abbastanza sorprendente che non abbia subito misure repressive più rigorose della semplice censura di alcuni articoli destinati alla sua rivista, Die Fackel («La Fiaccola»). Nel 1918, nel Regno unito, Bertrand Russell è stato arrestato e incarcerato per aver rivolto delle critiche ben più prudenti e moderate rispetto alla satira feroce e impietosa alla quale si è abbandonato Kraus contro l’Austria e il suo alleato tedesco.
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Fin dall’inizio del conflitto, sembra aver intuito che il processo di militarizzazione della vita, responsabile dello scoppio delle ostilità, non si sarebbe fermato con la fine di queste ultime. Una volta tornati a casa, i soldati avrebbero cercato di rifarsi del successo mancato sui campi di battaglia, intraprendendo se necessario una nuova guerra, ancora più terribile, contro la popolazione civile del proprio paese e, più precisamente, contro tutti i nemici interni. Nel 1915, Kraus annunciava «Nonostante tutto, il soldato che torna a casa non si lascerà facilmente reintegrare nella vita civile. Tenterà uno sfondamento nell’interno del suo territorio e solo lì comincerà la guerra. Si impossesserà dei successi negatigli, e la guerra sarà stata un gioco da bambini se confrontata alla pace che si sta per scatenare».
Non molti autori si sono spinti più in là di Kraus nella descrizione e nella denuncia degli orrori della prima guerra mondiale. Ma è stato anche uno dei pochi a percepire quasi da subito il rischio di quella che può essere definita «la guerra del dopo la guerra» e a rendersi conto che quella stessa «menzogna patriottica» servita a coprire le atrocità commesse tra il 1914 e il 1918 si sarebbe prestata anche a stendere un velo di cecità e di colpevole ignoranza su quelle di un secondo conflitto.
Gli ultimi giorni dell’umanità ha diversi passaggi che si potrebbero considerare visionari: «La sua espressione “La Germania, un campo di concentramento”, annotata su un foglio in un libricino di appunti mai pubblicato, rivela un’anticipazione inquietante, specie se accostata ad alcune scene profetiche de Gli Ultimi giorni dell’umanità», scrive Timms. Fra queste figura la rappresentazione dell’abominio dell’esecuzione a Kragujevac, per ubriachezza e insubordinazione, di veterani che, dopo aver passato diversi anni nei campi di prigionia in Russia, erano stati liberati e reincorporati nell’esercito austriaco. Questo episodio ha provocato in Kraus un’impressione tanto forte da tornare più volte ne Gli ultimi giorni dell’umanità, in particolare nella scena finale dell’atto V, dove alcune delle vittime della tirannia militare tornano sotto forma di apparizioni, come in Riccardo III di William Shakespeare, per tormentare i loro assassini: «Kragujevac. Due file parallele, ciascuna con 22 fosse aperte. Davanti ad esse sono inginocchiati 44 reduci anziani, decorati di medaglie al valore di vario grado. Dei bosniaci sparano su di loro a due passi di distanza. Le loro mani tremano. La prima fila rotola a terra. Sono tutti ancora vivi. Le canne dei fucili vengono loro puntate alla testa». «Mensa ufficiali. Il giudice capo leva il calice e, brindando al suo sosia nella sala, pronuncia le parole: “Sai, ne avrei potuti giustiziare anche trecento! Gli eccessi alcolici non possono venir tollerati! In via eccezionale gli ho concesso, a quelli, la morte onorevole per fucilazione!”». Poco prima, nella stessa scena, il Maggiore aveva proclamato: «Il mio motto è: In guerra… non si combatte solo contro il nemico, anche i nostri devono accorgersene!».
All’origine di buona parte degli orrori messi in scena nella tragedia troviamo quelle che Kraus ha rinominato la teoria e la mentalità dell’«innocenza persecutrice» (verfolgende Unschuld), principi alla base della propaganda militare: i criminali eccellono nell’arte di presentarsi ogni volta come piccoli e innocenti agnelli che, nonostante commettano atrocità, si difendono senza sosta dal lupo cattivo, venga esso da fuori o, in maniera più subdola e perversa, dall’interno. Kraus considerava che questa teoria – che diventerà uno degli strumenti fondamentali della propaganda nazista – offrisse già degli spunti per la comprensione di molti aspetti della prima guerra mondiale: «Non si sa niente di niente e si parla di altro, non si è fatto nulla, ma ne è colpevole l’altro; non è successo nulla e l’altro l’ha fatto; si incolpa chi dice la verità della menzogna scoperta».
Kraus, ne Gli ultimi giorni dell’umanità, riconosce una considerevole importanza al modo in cui i soldati, conformemente alla dichiarazione del Maggiore, si sono «risentiti» della guerra condotta contro di loro dai capi stessi. E insiste sul fatto che i trattamenti disumani che alcuni di loro si sono permessi di infliggere al nemico, e in particolare ai prigionieri nemici, sono spesso stati associati a un comportamento altrettanto privo di umanità destinato ai propri stessi uomini. D’altro canto, il Criticone trova particolarmente intollerabile che le autorità, disonoratesi a tal punto, si permettano di esigere da chi è sottoposto alla loro crudeltà e al loro arbitrio non solo l’obbedienza, che comunque il sottoposto non potrebbe rifiutargli, ma anche il rispetto.
Non dovrebbe forse essere considerato un crimine contro l’umanità il fatto che dei personaggi da operetta disponessero di un diritto di vita e di morte su migliaia di uomini, costringendoli a prendere la strada dell’eroismo e del sacrificio, rischiando, in caso di rifiuto o di altri errori veniali, il plotone d’esecuzione o la forca? Dice il Criticone: «Pensi che solo sotto il comando supremo dell’arciduca Federico – che secondo me è un fantasma ancor più redditizio della Schalek – sono state erette 11.400 forche, secondo altri dati 36.000. Ed era uno che non sapeva contare fino a tre. Figura di guerriero la cui gloria fa sembrare Napoleone l’ultimo dei disfattisti – in campo marziale come in quello erotico elettivamente affine e alleato a quel mostro di imperatore barbarico, l’imperatore dell’età del polpettone, che non riusciva ad astenersi da qualsivoglia quantità di carne e di sangue, battendosi la coscia e facendo risuonare la sua fragorosa risata da lupo: così rideva il lupo Fenri quando il cosmo si dissolse in fiamme».
In un passaggio sorprendente, il Criticone esprime il dolore e l’amarezza provocati dal timore che gli assassini, impuniti e sorridenti, sopravvissuti ai milioni di vittime di cui sono responsabili, non si ricordino di nulla e non abbiano imparato niente: «È proprio vero, se le vie del Signore non fossero imperscrutabili, sarebbero incomprensibili! Ma perché ci ha resi ciechi davanti alla guerra! Eccoli attraversare la vita barcollando, storpi e paralitici, tremuli accattoni, bimbi incanutiti, mamme impazzite che avevano sognato le offensive, figli eroici cui sfarfalla negli occhi il terrore della morte, e tutti coloro che non conoscono più il giorno né il sonno, e ormai non sono altro che i rottami di una creazione frantumata. E laggiù, coloro che hanno ardito quest’intrusione ridono del giudice al di sopra delle stelle, il cui trono è troppo alto perché il suo braccio li raggiunga. Non è tutto compiuto? Non resta una sola cicatrice nella loro anima, che mai è stata ferita da ciò che hanno fatto, saputo, tollerato. La pallottola è entrata all’umanità da un orecchio ed è uscita dall’altro. Via da questo orrore ridente! Via da questo volto dell’Austria, dall’interminabile gaudio di questa pozza di sangue!».
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Una cosa dovrebbe attirare particolarmente il nostro interesse nel momento in cui si commemora l’inizio della tragedia: l’indignazione e la rivolta di Kraus contro il modo in cui i principali responsabili della catastrofe hanno formattato la memoria del conflitto, orientandola verso l’eroizzazione dell’evento e la celebrazione del sacrificio di chi, come si suol dire, è caduto sul campo. L’industria e il mercato dei ricordi funzionano, per Kraus, essenzialmente come un’organizzazione dell’oblio: quello delle vittime e quello della strage di massa di cui sono state vittime. Quest’occultazione potrebbe essere, a termine più o meno breve, nuovamente responsabile di milioni di morti.
La reazione dell’autore di satire si capisce ancora meglio di fronte alla nascita, immediatamente successiva alla fine delle ostilità, e al prosperare di un’attività economica di tipo nuovo, che potremmo chiamare «turismo dei campi di battaglia» – del resto un’epoca come la nostra non finisce forse per tornare rapidamente alla sola cosa che conta realmente per lei? Come dice il Redattore al Funzionario incontrato nella sede della Federazione del turismo: «Ma adesso veniamo al problema principale. Quali attrattive potremo noi offrire al termine della guerra ai nostri turisti, o piuttosto, in che modo potremo sostituire con altre attrattive le curiosità e i monumenti che saranno stati distrutti dalla guerra?» Il Funzionario non fatica a trovare la risposta: «Noi nutriamo la speranza che la reverente visita alle tombe e ai cimiteri militari avrà come conseguenza un forte movimento turistico. Si tratta in fondo di rimettere in sesto casa nostra. E proprio a questo proposito noi facciamo appello alla ingente collaborazione della stampa, giacché è nostro compito ricavare da ogni epoca le attrattive che essa offre, e le tombe dei caduti sembrano fatte apposta per farci sperare in un rilancio del turismo».
Tra le frasi fatte e quelle più o meno rituali che Kraus ha analizzato e criticato in Die Fackel e ne Gli ultimi giorni dell’umanità, una delle più ricorrenti è «non bisogna generalizzare», paravento dietro cui troppo spesso i colpevoli cercano di nasconder sé stessi e le proprie responsabilità, asserendo che se pure questa volta hanno rubato, tuttavia in altre occasioni non l’hanno fatto e, in ogni caso, molti altri non l’hanno mai fatto. Al contrario, Kraus difende l’idea che ci siano delle situazioni nelle quali si ha il diritto (se non il dovere) di generalizzare. O, più esattamente, non si generalizza quando un unico caso può già essere un caso di troppo e bastare al discredito di un’istituzione che, del resto, al suo interno potrebbe comprendere un gran numero di rappresentanti virtuosi e onesti. Coloro che in maniera inopportuna generalizzano sono in genere gli stessi che cercano di usare a proprio vantaggio le virtù e l’onestà riconosciute di altri.
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Agli occhi del Criticone, una delle peggiori illusioni sulla guerra va cercata nel discorso di quanti credono alle sue virtù rigeneratrici e ripetono in tutti i modi che ne deriverà un rinnovamento della civiltà. Piuttosto, la verità è che la guerra non ha il potere di rendere migliore chi era buono; ha solo quello di rendere ancora più cattivo chi già lo era. Ne conseguirebbe che l’umanità non abbia interesse alcuno nel tentare l’esperienza: «Se c’è stato bisogno di appiccare un incendio per sperimentare che due inquilini onesti vogliono salvare dalle fiamme dieci inquilini innocenti, mentre altri ottantotto inquilini disonesti sfruttano l’occasione per fare qualche mascalzonata, non sarebbe il caso di ostacolare l’intervento della polizia e dei pompieri cantando le lodi dei lati buoni della natura umana. Non era necessario dimostrare la bontà dei buoni, e poco pratico creare a questo scopo un’occasione per la quale i malvagi diventano ancora più malvagi».
Il sangue versato ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e, dal canto suo, l’inchiostro ha fatto scorrere fiumi di sangue. La prima guerra mondiale ha permesso di testare in condizioni insperate sia la capacità di distruzione di armi estremamente perfezionate, concepite dall’umanità, sia le possibilità pressoché illimitate e ancora ampiamente insospettate della comunicazione e della propaganda.
Dopo la perdita della fortezza di Przemyl – roccaforte della Galzia occidentale conquistata dai russi nel marzo 1915 e ripresa in giugno dalle truppe austro-tedesche –, l’ufficiale di stato maggiore al telefono spiega al giornalista che segue l’evento il principio fondamentale da applicare nei casi di questo genere: il valore e l’importanza di una fortezza cambiano completamente a seconda che sia in mani nostre o del nemico. «Cosa, hai dimenticato di nuovo tutto?… Ah, voialtri!… Stammi a sentire, fissatelo bene in mente… Punti principali: primo, la fortezza non valeva un gran che. Questa è la cosa più importante… Come? Non si può… Non si può far dimenticare che la fortezza è stata da sempre il vanto…? Ma tutto si può far dimenticare, caro mio! E allora, stammi a sentire, la fortezza non valeva gran che, un mucchio di calcinacci… Cosa? Cannoni modernissimi? Un mucchio di calcinacci, ti dico, intesi?».
Anche per quanto riguarda la stampa, lo si ripete instancabilmente, non bisogna commettere l’ingiustizia di generalizzare. Ma che un sistema come quello del giornalismo riesca a pervertire un uomo onesto e coraggioso era assai meno grave per Kraus della sua capacità di trasformare facilmente un uomo debole in un farabutto. Alcune istituzioni offrono tante occasioni ad altrettante persone da produrre di conseguenza un numero significativo di ladroni; e, più che con gli individui, l’autore di satire se la prende proprio con queste istituzioni denunciando le canaglie e stigmatizzandone le nefandezze.
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Come dice il Criticone, «Sotto il velo dell’ideale il male prospera come non mai». La stessa Università non si è sottratta all’obbligo di proteggere i grandi ideali, neanche quando sono stati invocati per giustificare azioni rivoltanti. Kraus sostiene che la Germania si trova in una pessima posizione per potersi atteggiare a vittima della barbarie del nemico, specie « perché qui si è offerto tutto un esercito di babbei e imbroglioni provenienti dal mondo del giornalismo, delle lettere e delle accademie, mercenari pagati in sangue straniero che, con quella stessa penna che aveva gettato sui nemici rimproveri di condotte disumane durante la guerra, anzi su quegli stessi fogli, hanno descritto e persino accolto con gridi di gioia i bombardamenti di infermerie, chiese, aule scolastiche, il siluramento di navi ospedale, gli onori e la trasfigurazione destinati ai cacciatori di uomini». L’autore di satire riconosce che si debba provare compassione per le persone a cui non è stata lasciata alcuna scelta ma non certo per «l’intellighenzia tedesca che, più di qualsiasi altro paese, dal primo poeta all’ultimo reporter, dal primo professore in diritto internazionale all’ultimo pastore», ha sguazzato nel bagno di sangue, traendone vantaggi.
Né i generali né i governi dei paesi coinvolti hanno goduto, dal punto di vista di Kraus, di un’impunità così scandalosa come è stato il caso dei giornalisti. I guerrieri della stampa, che hanno aizzato l’isteria bellicista, alimentato per tutti quegli anni il fervore sciovinista e mentito sulla spaventosa realtà della guerra, sapevano che niente di quanto minaccia, di tanto in tanto, i capi militari o i responsabili politici sarebbe potuto capitare a loro. La stampa, l’ultima a volersi ricordare il modo in cui si era comportata, aveva certo ottime ragioni per partecipare attivamente all’organizzazione dell’oblio generale.
La giustizia più elementare avrebbe preteso, secondo Kraus, che la carta di giornale, servita più di ogni altra cosa a infiammare l’incendio mondiale, vi fosse buttata tutta quanta. Ma niente di simile è successo; i giornali più potenti e i più influenti non hanno neanche avuto bisogno di esprimere il minimo sentimento di imbarazzo o di pentimento. Questo atteggiamento di sistematico diniego e, per finire, «l’esclusione di ogni forma di realtà» – quelle della guerra, delle sue cause, delle sue conseguenze –, nel quale di nuovo la stampa ha avuto un ruolo importante, hanno contribuito all’arrivo al potere di Hitler e al nuovo disastro che si è prodotto solo vent’anni dopo la fine della prima guerra mondiale.
Diversamente dalla maggioranza della popolazione tedesca e austriaca, Kraus non ha mai nutrito dubbi sulla responsabilità reale che questi due paesi avevano avuto nello scoppio e nella gestione delle ostilità. In un articolo su Die Fackel,una sorta di epitaffio sulla guerra e sull’Austria di cui ha significato la rovina, ha sostenuto che l’attacco alla Serbia da parte del suo paese e l’invasione del Belgio da parte delle truppe tedesche erano stati atti criminali. Quando infine le armi hanno taciuto, sempre per Kraus, i dirigenti politici e i capi militari che le avevano volute e imposte all’umanità sarebbero dovuti comparire davanti a una corte di giustizia internazionale e sanzionati. Su questo punto, era stato influenzato dalla lettura di Per la pace perpetua, di Immanuel Kant, un testo che ammirava profondamente e che prefigura l’idea di una Società delle nazioni, arbitro dei conflitti tra gli stati, e quella di un tribunale internazionale, incaricato di giudicare coloro che hanno violato le regole indispensabili per la risoluzione pacifica dei conflitti.
Kraus era assolutamente convinto che la pace imposta dai vincitori non fosse né equa né rassicurante, e che ci fossero grandi probabilità che presto o tardi conducesse a una nuova guerra. Ma non per questo credeva che un’ingiustizia subita potesse costituire una valida ragione per prepararsi a commetterne un’altra ancora maggiore.
Contrariamente alle accuse rivoltegli, non ha mai neanche pensato che il nemico nella sostanza fosse migliore, né tantomeno che fosse irreprensibile: «Che splendore e diritto stiano dall’altra parte non si può assolutamente desumere da alcuno dei miei articoli pubblicati durante la guerra. Mentre invece è certamente possibile farlo per il comandamento morale del conoscere e confessare l’ignobile miseria e l’ingiustizia presenti nella propria parte. Se nell’altro campo ci sono ingegni che adempiono a questo dovere, prestano un servizio all’umanità; noi dobbiamo fare la nostra parte. Il dovere non si ferma alla celebrazione della pace. Il nemico deve dimenticare quel che il nemico gli ha fatto senza dimenticare ciò che egli ha fatto al nemico. Purtroppo, entrambe le parti tendono a contravvenire a questo comandamento».
Se vogliamo evitare che le guerre ricomincino, dice Kraus, naturalmente bisogna conoscerne le cause, ma anche non accontentarsi di attribuire le loro conseguenze alla cattiveria del nemico, compreso quando è quest’ultimo ad aver vinto.
Le citazioni sono tratte da Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità (Adelphi Edizioni, 1980. L’edizione è quella del 1996 a cura di Ernesto Braun e Mario Carpitella) e da La terza notte di Valpurga (Editori internazionali riuniti. Traduzione di Paola Sorge).
Traduzione di Alice Campetti
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