«La casa in cui sono cresciuto era una tipica abitazione del periodo prebellico, tutta in legno, con poche pareti a separare gli ambienti. La maggior parte dei pavimenti erano tatami e qua e là c’erano applicazioni di washi (carta tradizionale giapponese, ndr). Non era presente nessun elemento che potesse intimidirmi, niente di aggressivo. Ovunque, l’atmosfera era dolce ed emanava calore: credo che proprio in quello spazio siano germogliate le basi della mia architettura».
Kengo Kuma (Yokohama, 1954) è sbarcato in Laguna pochi giorni prima dell’inaugurazione della Biennale Architettura con la sua personale presso Acp Palazzo Franchetti, dal titolo Onomatopeia Architecture (a cura di Chizuko Kawarada e Roberta Perazzini Calarota, fino al 26 novembre). Con alle spalle edifici come il museo Xinjin Zhi in Cina, la Tea House di Pechino, l’Albert Kahn museum a Boulogne Billancourt, il Victoria&Albert a Dundee in Scozia e il bellissimo museo dedicato a Hans Christian Andersen (che ha aperto i battenti lo scorso giugno a Odense), l’architetto attraverso il suo studio è presente anche in Italia avendo disegnato «l’ufficio biofilico del futuro» per Milano nell’ex area Rizzoli (la fine dei lavori è prevista nel 2024).

Kengo Kuma credit S. Kisshomaru

CONVINTO di avere la missione di esplorare il potenziale dei materiali, questo «artista del legno» si considera un sognatore che ha come compito la liberazione degli esseri umani, «gli architetti sono dei guaritori con i loro progetti», afferma. E allora, «onomatopea è un termine perfetto, in grado di creare un legame fra l’emozione umana e l’architettura – spiega Kuma –. Le questioni climatiche non possono essere affrontate solo dando cifre o sviscerando numeri per identificare alcuni elementi. Ritengo che l’onomatopea sia uno strumento utile per realizzare edifici sostenibili e ambienti vivibili. Quando vengo a Venezia, mi sento vicino all’acqua come ’materiale’ e sperimento un dialogo. Che non usa un linguaggio influenzato dalla logica. L’onomatopea fa sì che corpo e materia si parlino, risuonando con un linguaggio primitivo».
Ritmico, profondamente sensoriale, con tratti che invitano a viaggi immaginari in un altrove evanescente, lo spazio interpretato da Kengo Kuma esula dall’uso del cemento su larga scala (in fondo, si era laureato negli anni Settanta quando era quello il vocabolario) per disseminarsi in tanti piccoli progetti «musicali», dalla fisicità eterea.
«Prima dell’espansione del modernismo, i materiali naturali assumevano un grande ruolo di collegamento tra esseri umani e spazi, in quanto quegli stessi elementi provenivano dalle medesime comunità. Basti pensare all’utilizzo del calcestruzzo, che è stato pubblicizzato in tutto il mondo come il mezzo più efficiente rapido per costruire edifici. Ma la situazione sta cambiando ancora una volta: oggi è fondamentale che i materiali siano prodotti localmente e la speranza di questo modo di agire è che riescano a riunire in comunità le persone proprio con la condivisione del terreno hanno sotto i piedi».

PER KUMA, i paesaggi architettonici e quelli letterari si somigliano, hanno profonde affinità elettive, una liaison di amorosi sensi. È lui, infatti, ad aver descritto il mondo fiabesco e selvatico di Andersen consegnandogli un’immersiva casa («da piccolo, l’acciarino magico era la mia storia preferita, non riuscivo a smettere di leggerla, ero in ansia per le sorti del soldato», dice) e ad aver dato una identità alla Biblioteca Haruki Murakami. «Trovo che letteratura e architettura abbiano molte cose in comune; solo per fare un esempio, conducono oltre la quotidianità – nella mente e nel corpo, rispettivamente. Leggere romanzi può tagliarti fuori dalla vita reale – probabilmente è questo che si sperimenta nei libri di Murakami».

Asakusa Culture Tourist Information Center

QUALCOSA PERÒ è cambiato e il mondo post pandemico presenta sfide impreviste per gli architetti. «Tutto è decisamente mutato. Siamo entrati in una nuova era e non c’è alcuna necessità di tornare ai tempi che correvano prima dello spartiacque Covid. La pandemia ha, di fatto, invertito la tendenza globale in cui le persone miravano a costruire e poi abitare grandi città congestionate, dove far andare in scena la loro vita. Non funziona più e gli architetti dovrebbero proporre un nuovo stile esistenziale. Sarebbe opportuno farlo in modo concreto, attraverso il loro design di edifici o spazi».