«One Hit Wonder», il disco è figlio unico
Band e solisti che hanno registrato un solo, irripetibile album Tutti conoscono gli “one hit wonder” quegli artisti che hanno brillato con una sola canzone per poi proseguire la propria avventura musicale nell’oscurità creata dall’ombra di un successo irripetibile. Più […]
Band e solisti che hanno registrato un solo, irripetibile album Tutti conoscono gli “one hit wonder” quegli artisti che hanno brillato con una sola canzone per poi proseguire la propria avventura musicale nell’oscurità creata dall’ombra di un successo irripetibile. Più […]
Tutti conoscono gli “one hit wonder” quegli artisti che hanno brillato con una sola canzone per poi proseguire la propria avventura musicale nell’oscurità creata dall’ombra di un successo irripetibile. Più affascinanti e meno indagati sono i casi di gruppi o di artisti che hanno realizzato un solo album e che riassumono la loro intera carriera in un risicato pugno di canzoni. Che cosa porta ad abbandonare dopo un solo disco? Per i gruppi spesso il ritiro è causato dallo scarso esito commerciale, da un supposto fallimento artistico o da litigi. In alcuni casi c’è però un dramma o una tragedia incombente, altre volte si assiste a scelte di vita radicali e inaspettate. Tra gli artisti da un album solo c’è chi ha lasciato un segno indelebile e c’è chi ha realizzato opere che, proprio per la loro unicità, sono diventate nel tempo oggetti di culto. C’è infine chi ha lasciato un’impronta superficiale ormai coperta dalla polvere, ma una storia da raccontare.
The Monks
Una band sperduta e dimenticata che ha avuto la sua consacrazione quasi trent’anni dopo l’unico, e non replicato, album. I Monks nacquero in Germania nel 1964, erano un quintetto formato da militari americani di stanza ad Amburgo dove nelle ore di libertà si esibivano al Top Ten Club, il locale che poco tempo prima aveva ospitato i Beatles alle prime armi. Terminato il servizio militare, il gruppo sembrava destinato a diventare una cosa seria. Il loro album Black Monk Time, inciso a Colonia, venne pubblicato nel marzo del 1966. La band scelse anche di assumere un look in tema con il loro nome, adottando un aspetto monacale. Nelle foto dell’epoca appaiono con una tonsura benedettina e talvolta con lunghe e lugubri tonache nere. Erano gli anni dei Fab Four e degli Stones e le loro scelte musicali ed estetiche non erano destinate a sfondare. I Monks si sciolsero, senza che peraltro quasi nessuno si fosse accorto della loro esistenza. Ma il loro album divenne negli anni una sorta di reperto archeologico che stupiva chiunque lo riscoprisse. I Monks erano incredibilmente avanti rispetto ai loro tempi. Non rinnegavano i suoni dell’epoca, ma li stravolgevano. Il loro era un beat trasfigurato, un garage-rock d’avanguardia che anticipava l’energia protopunk degli Stooges, la psichedelia e l’art rock dei Velvet Underground. L’album fu ristampato più volte a partire dagli anni ’90 diventando per molti critici un’opera fondamentale. Qualcuno l’ha definito l’anello mancante nell’evoluzione del rock alternativo. Il rocker inglese Julian Cope ha sostenuto che la forza del disco sia nata proprio dalla sua registrazione in Germania, lontano dalle grandi capitali del rock dell’epoca: «In America arrangiatori e produttori avrebbero orrendamente mutilato il loro sound». I Monks si riunirono così, per acclamazione, nel 1999 e da allora hanno ripreso a esibirsi sporadicamente dal vivo, ma il loro album è rimasto un pezzo unico riverito come una reliquia.
Blind Faith
Un album, sei canzoni, un anno scarso di attività. Questo il riassunto della vita del primo supergruppo della storia del rock e, forse, uno dei migliori. La band riuniva Steve Winwood proveniente dai Traffic e dallo Spencer Davis Group, Ginger Baker e Eric Clapton che avevano appena concluso l’avventura dei Cream e Ric Grech che aveva militato nella formazione progressive dei Family. Il gruppo si costituì alla fine del 1968 raccogliendo le aspettative di tutti i membri che pensavano con il nuovo sodalizio di poter consolidare le loro esperienze musicali e di poterle far fiorire senza nessun vincolo. La band debuttò ufficialmente nel giugno del 1969, pubblicando un album omonimo ad agosto e raccogliendo un ottimo successo commerciale. Grande clamore suscitò la copertina del 33 giri che ritraeva una ragazzina seminuda (vedi Alias del 28 aprile 2012). In molti pensarono che i Blind Faith fossero solo una macchina da soldi, ma l’alchimia funzionava e il quartetto sperimentava una blues fusion che avrebbe potuto essere l’inizio di una grande esperienza. Qualcosa però si inceppò subito. Il supergruppo si trovò ad affrontare un tour con un repertorio ridotto e le idee poco chiare. I quattro sul palco finirono per suonare le canzoni delle loro precedenti band da cui avevano intenzione di distaccarsi. Il più perplesso fu Eric Clapton che, alienato dalle sue dipendenze ormai fuori controllo, decise di archiviare l’esperimento, infastidito dal successo e dall’eccessiva attenzione. Il tempo ha dato il giusto risalto all’album, oggi considerato un classico, e anche Slowhand ha dovuto col tempo ricredersi e ha incluso come pezzi fissi del suo repertorio i due brani più belli della band: “Can’t find my way home” e “Presence of the Lord”.
Skip Spence
Negli anni ’60 l’eclettico polistrumentista Alexander “Skip” Spence militò in alcune band di riferimento del mondo musicale americano, fece parte dei Quicksilver Messenger Service come chitarrista e poi entrò nei Jefferson Airplane dove era alla batteria. Migrò poi nei Moby Grape. Questa irrequietezza artistica era lo specchio di una personalità tormentata. Nel 1968 sotto l’influsso dell’LSD minacciò con un’ascia i suoi compagni di band. Fu internato nel manicomio Bellevue di New York. Qui gli venne diagnosticata la schizofrenia e qui trascorse sei mesi virtualmente rinchiuso. Secondo la leggenda, uscito dall’ospedale, salì, in pigiama, su una motocicletta e si diresse direttamente a Nashville dove in soli sette giorni incise le canzoni che aveva scritto durante il suo ricovero, cantando e suonando tutti gli strumenti. Il maggio del 1969 uscì l’album Oar il documento incontaminato di quella febbrile settimana di lavoro. Una raccolta di folk rock psichedelico spettrale, cupo, malinconico e ipnotico. Uscito per la Columbia e rimasto invenduto, fu il primo lavoro solista di Skip e il suo addio. Da allora i suoi problemi ebbero la meglio su di lui. Entrò e uscì dagli ospedali, visse per un periodo anche da homeless prima di morire nel 1999 per un tumore. Il fascino di Oar è però cresciuto con gli anni acquistando anche tra i musicisti rock un seguito di culto. Negli anni è stato reinciso in un disco tributo che vede tra i partecipanti Robert Plant, Tom Waits, Greg Dulli e Mark Lanegan. Beck ha realizzato una sua versione integrale del disco.
Sex Pistols
I Sex Pistols riuscirono davvero a cambiare la storia della musica rock con un solo disco. Pubblicato il 28 ottobre 1977, Never mind the Bollocks here’s the Sex Pistols arrivò dopo i singoli “Anarchy in the U.K.” e “God Save the Queen” che avevano già messo a ferro e fuoco la scena musicale e l’opinione pubblica britannica. La band finì di incidere l’album solo a fine settembre e il tutto fu pubblicato in Gran Bretagna dalla giovane etichetta Virgin con una tracklist decisa dal boss della casa discografica, il futuro magnate Richard Branson. Il manager del gruppo Malcom McLaren all’insaputa di Branson aveva intanto stretto accordi con altre case discografiche in Francia (dove il disco uscì con una traccia in meno per la Barclay) e negli Stati Uniti, dove la Warner bros. si aggiudicò i diritti di diffusione per una cifra che oggi appare ridicola: 22mila sterline. L’album era trasgressivo sin dal titolo per la parola “bollocks” (coglioni) e l’uscita del disco fu la definitiva consacrazione di una rivoluzione che era già in atto. Il punk aveva conquistato una nuova generazione e nulla fu più lo stesso. Non poteva durare, non durò. I Pistols (Johnny Rotten, Steve Jones, Paul Cook e Sid Vicious) nel gennaio ‘78 si imbarcarono in un disastroso tour americano che porterà alla fine della band. Uscirono poi dischi live, demo-tape e materiale più o meno apocrifo. La band è tornata ad esibirsi dal vivo, ma non è mai più uscito un nuovo disco di inediti firmato dai Pistols. Never mind the Bollocks aprì una nuova era e rimase senza seguiti. E forse è meglio così.
The Germs
Paul Beahm era un ragazzino ribelle e tormentato di Los Angeles, cresciuto in una famiglia spezzata, amante della musica e appassionato, o forse ossessionato, dallo studio delle religioni. La morte per overdose del fratello, la scoperta che il padre che l’aveva cresciuto non era in realtà il suo vero genitore, gli fece ideare un piano folle e autodistruttivo: diventare una star della musica, uccidersi e rendersi immortale attraverso la sua leggenda. Era il 1977, Paul scelse di diventare Darby Crash e formare una punk-band: i Germs. Irruppero come un uragano sulla scena musicale della West Coast. Nel 1979 uscì il loro album, l’esplosivo (GI) (Germs Incognito), destinato a essere l’unico della loro carriera. Il disco venne accolto con ammirazione dalla comunità punk, con orrore dai benpensanti della musica. Il quotidiano LA Times coniò l’espressione “olocausto auricolare”. La missione di paul era quasi compiuta. Il 7 dicembre 1980 strinse un patto suicida con la sua ragazza, Casey Cola. I due si iniettano una dose da 400 dollari di eroina. Crash, che all’epoca aveva 22 anni, morì. Casey sopravvisse. In pochi però si accorsero della sua morte. Il giorno dopo John Lennon venne ucciso a New York e la storia di Crash passò inosservata. Ma la furia musicale dei Germs (di cui faceva parte anche Pat Smear, poi in Nirvana e Foo Fighters) non venne dimenticata e diede inizio alla rivoluzione punk al sole della California. In tutte le band di quella scena (dai Circe Jerks ai Black Flag, dai Dead Kennedys ai Bad Religion) c’era un po’ del furore, dell’energia e della follia di Darby Crash.
Rites of Spring
Il marchio emo ormai è un’etichetta che indica una moda adolescenziale abbastanza deprecabile e ha perso le sue originali connotazioni musicali. Dovendo però rintracciare l’origine autentica del fenomeno bisogna addentrarsi nella storia del punk. Gli indizi portano ai Rites of Spring, band nata nel 1984 a Washington D.C. e che arricchiva la rivoluzionaria furia dell’hardcore con melodie e un approccio più emotivo. La loro discografia è composta da un Ep e un unico album omonimo dato alle stampe nel giugno del 1985. Il loro sound inaugurò una nuova fase del punk americano e rimane ad oggi lo specchio di un’era. Kurt Cobain citava il disco tra i suoi preferiti di sempre. I Rites of Spring cessarono di esistere quasi subito. Il cantante e il batterista della band, Guy Picciotto e Brandon Canty, decisero di fondare una nuova band assieme al produttore del loro album Ian MacKaye, ai tempi leader dei Minor Threat. Nacquero i Fugazi e con essi un nuovo modo di intendere il rock indipendente.
The La’s&
Il rock inglese più o meno recente è affollato di giovani band di belle speranza finite nel nulla dopo un singolo o poco più. Tra esse poche hanno lasciato un segno così profondo come questo quartetto di Liverpool che firmò un solo album e poi scomparve. Era la fine degli anni’80 e i La’s sulla scorta di un singolo intitolato “Way out” suscitarono l’attenzione del mondo musicale britannico. La loro città natale Liverpool scomodava paragoni ingombranti, Morrisey tesseva le loro lodi, la stampa musicale si innamorò di loro. In realtà era una band in perenne crisi, sottoposta a continui cambi di line-up in cui emersero come leader il cantante e chitarrista Lee Mavers e il bassista John Powers. Il loro secondo singolo, “There She Goes”, era un capolavoro e diverrà la pietra angolare del nuovo brit-pop che avrebbe conquistato la musica di lì a poco. Ma il grande pubblico non se ne accorse subito e il gruppo, tra conflitti interni, aspettative esasperanti e discussioni artistiche, passò due anni a lavorare su un album di debutto con produttori di grido tra cui Steve Lillywhite. Il lavoro venne infine pubblicato alla fine nell’ottobre del 1990. La stampa osannò l’opera che entrò in classifica in Gran Bretagna. Anche il singolo “There She Goes” fu ripubblicato ottenendo quel consenso che fino allora era mancato. Ma i mesi passati in studio di registrazione avevano già esaurito la giovane band. Lee Mavers boicottò l’album dichiarando pubblicamente di odiarlo e disconoscendo il lavoro sulle tracce che aveva fatto Lillywhite. L’inizio di una promettente carriera era in realtà il tramonto. John Powers abbandonerà nel 1991 per fondare i Cast. Di Lee Mavers non si seppe più nulla per circa un decennio. I La’s si sono rivisti qualche volta sul palco, ma poco altro. E il loro unico album è diventato un indiscusso pezzo di storia del brit-pop. Le notizie di una loro definitiva reunion e un possibile secondo album si susseguono, infondate, da più di dieci anni.
Jeff Buckley
E’ difficile oggi trovare un giovane artista o cantautore che non citi Jeff Buckley tra le sue ispirazioni. Grace rimane l’unico suo album ufficiale. Uscito nell’agosto del 1994, fu registrato negli studi Bearsville di Woodstock da quello che ai tempi era solo uno sconosciuto figlio d’arte, erede del cantautore californiano Tim morto giovane nel 1975. Jeff in realtà aveva conosciuto il padre solo brevemente e il cognome fu per lui solo un peso. Grace è un disco di un artista nato maturo, un’opera che col tempo è diventata fondamentale, sostenuta dalla forza creativa di Jeff e dalla sua straordinaria intensità interpretativa riassunta nella indimenticabile cover di “”Hallelujah” di Loenard Cohen. Il 29 maggio 1997 Buckley morì inghiottito dalle acque del Mississippi dove si era immerso completamente vestito. Un gesto disperato o solo un’incoscienza? Non si saprà mai. Jeff stava lavorando a un secondo album che vedrà la luce nella sua versione grezza e non definitiva. Grace rimane l’unico vero album che lui abbia mai prodotto, un lavoro che a quasi vent’anni dalla sua uscita non ha ancora finito di stupire.
For Squirrels
E’ inutile fare sforzi di memoria, nella loro brevissima carriera i For Squirrel non ebbero neppure il tempo per farsi notare. Ma la loro vicenda è una delle più tristi e crudeli nel novero delle “one band album”. Negli anni ’90 quattro ragazzi di Gainsville Florida (Jack Vagliatura, Bill White, Jack Gringo e Travis Tooke), dopo alcune incisioni autoprodotte e un buon seguito conquistato a livello locale, approdarono a un contratto con una major, la Sony, convinta che il loro sound sarebbe stato in grado di conquistare le college radio e i fan del grunge. Incisero così un lavoro d’esordio intitolato Example e un singolo dedicato alla memoria di Kurt Cobain intitolato “Mighty K.C.”. La data fissata per l’uscita era l’8 ottobre del 1995. Ma il destino era in agguato. Un mese esatto prima di quella data, al ritorno da un concerto a New York, esplose una ruota del furgone su cui viaggiava la band. Il mezzo finì fuori strada uccidendo sul colpo il cantante Jack Vagliatura, il bassista Bill White e il tour manager Tim Bender. Gli altri due musicisti del gruppo finirono in gravi condizioni all’ospedale, ma si salvarono. L’album uscì come previsto, ma ad accompagnarlo non ebbe recensioni, ma necrologi. «Si sentivano sul tetto del mondo – disse un loro amico –. Nella loro vita sembrava che tutto stesse per cambiare». Il singolo “Mighty K.C.” divenne una hit nelle radio universitarie, ma le parole riecheggiavano ormai come una cupa profezia: «Portami all’obitorio/Sono pronto a essere sepolto/ (…) E per la grazia di Dio/ ad andare nel grande mondo sconosciuto».
Lauryn Hill
Fuoriuscita dal trio hi-hop Fugees, la cantante americana incise un album solista in Jamaica nel 1998. Con il titolo The Miseducation of Lauryn Hill l’opera uscì nell’agosto di quell’anno. La Hill, che in sala di registrazione curava la produzione e suonava gran parte degli strumenti di accompagnamento, dimostrava di essere una voce unica e un’artista totale capace di unire soul, reggae, hip-hop, r&b e melodia. L’impatto del disco fu enorme: 18 milioni di copie vendute nel mondo, 5 Grammy awards, unanime consenso della critica. Sembrava l’inizio di una carriera solista stellare. Eppure Lauryn non ha mai più realizzato un nuovo album. Si è esibita dal vivo col contagocce, è comparsa sporadicamente in canzoni di altri artisti, ha pubblicato un disco dal vivo, ma è sostanzialmente sparita dalle scene. Alla base di questa scelta ci sono senza dubbio i 5 figli avuti con il compagno (ormai ex) Rohan Marley, figlio del grande Bob, ma anche una serie di scelte artistiche sbagliate. Una sfortunata reunion dei Fugees finì tra litigi e concerti disastrosi nel 2005. Non è stato d’aiuto un carattere bizzoso e poca capacità di gestire lo status di superstar. Spesso si è detto che Lauryn fosse pronta per tornare con un altro lavoro solista, ma le voci sono state tutte smentite. Nel 2011 ha avuto un sesto figlio da un nuovo compagno e ha avuto anche problemi legali. Ha trascorso l’estate del 2013 in cella presso la Federal Correction Facility a Danbury in Connecticut. E’ stata condannata per evasione fiscale a una pena detentiva di tre mesi. Il pubblico dimentica, il fisco no.
The Postal Service
Ben Gibbard (cantante dei Death Cab for Cutie) e il produttore Jimmy Tamborello riuscirono nel 2003 a lavorare a un album senza vedersi quasi mai. Gibbard cantava le canzoni incidendole su un nastro digitale, le spediva via posta a Tamborello che elaborava i suoni coinvolgendo la voce femminile della vicina di casa, la cantante Jenny Lewis. Nacque così l’album Give Up, firmato con il nome Postal Service, per riconoscenza al servizio di corrispondenza. I due artisti, molto diversi tra loro, misero insieme, a distanza, un disco impeccabile in cui l’indie-pop si sposava a perfezione con l’elettronica. L’album, a dispetto delle premesse da operazione clandestina, vendette negli USA più di un milione di copie. I Postal Service erano solo un sodalizio temporaneo e si trovarono osannati da critici e tempestati di richieste di fan di avere qualcosa di nuovo. Ma l’improvvisata band, a parte qualche singolo, non ha mai voluto pubblicare un secondo album. Quest’anno Tamborello e Gibbard hanno fatto un tour insieme ed hanno pubblicato una versione speciale di in occasione del decennale.
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