Il lavoro, l’intelligenza, lo spirito del fumettista Tuono Pettinato, scomparso prematuramente nel giugno del 2021, animano per il terzo anno «Giorni di Tuono», il festival a lui dedicato che si svolge questo fine settimana a Pisa. Molte le iniziative, tra mostre, concerti e presentazioni tra le quali quella di Malanotte di Marco Taddei e La Came-autrice anche del manifesto del festival. Abbiamo intervistato gli autori del fumetto che si è aggiudicato il Premio «Tuono Pettinato», organizzato dalle biblioteche della Rete Bibliolandia.

Il protagonista della vostra storia è il giovane Ernesto, che torna al paese del padre con un registratore sottratto al dipartimento dove svolge i suoi studi di dottorato. Il nome sembra un omaggio al grande E. De Martino- e visto che il suo atteggiamento cambia durante il racconto, quali aspetti di questo personaggio vi interessava sviluppare?
MT: Ernesto è un falso candido. È uno studioso, non proprio un professore. Dà l’idea di cercare un qualcosa che travalica la ricerca stessa. Forse un’affermazione personale, o una fuga da un’esistenza di responsabilità. Abbiamo cercato di creare un personaggio realistico, visto lo sfondo sovrannaturale della storia, e per renderlo vivo gli abbiamo dato una certa irrequietezza sotto il suo faccino da ricercatore per bene. Personalmente, se i protagonisti non sono un po’ oscurati da strane nubi e paturnie, non li sento davvero miei, non li sento corposi.

LC: La cosa che ho adorato sviluppare di Ernesto, è sicuramente la metamorfosi che subisce nello scorrere delle pagine. Le sue occhiaie aumentano, la camicia e la giacca lasciano spazio alla maglietta della salute stropicciata, la sua postura, le sue espressioni, si fanno sempre più distorte. Ernesto scappa dalla città per qualche giorno, per prendersi una piccola pausa da dei problemi piuttosto ordinari. Il magnetofono, i nastri registrati, la ricerca, sono solo un pretesto per sentirsi speciale, per fare il cittadino erudito fra gli zotici di paese e con un po’ di fortuna, fare qualcosa di degno di nota nella sua vita. Penso sia questo il motivo inconfessabile per cui resta nel paesino, anche quando si proietta su di lui la terrificante ombra della Pantafa: meglio sprofondare nell’orrore che tornare all’ordinario.

La Pantafa è tradizionalmente una figura demoniaca che disturba il sonno, un incubo che assume le sembianze di una vecchia. Ma le superstizioni spesso attingono a elementi di realtà, nella vostra storia la Pantafa si materializza in una donna che in passato ha vissuto nel paese. Come avete costruito la sua storia?
MT: Pantafa è un nome che si ripete – con qualche variazione – nel racconto orale di tanti paesi d’Italia e non, ma che nonostante la larga diffusione, non ha né un vero volto né una vera iconografia. È il fantasma per eccellenza, come dà ad intendere il nome stesso, quindi è lecito immaginarla come una creatura evanescente, pallida, figlia del mondo dei morti. La sua storia, alla stessa maniera del suo aspetto, non c’è, o meglio non è definita. Ho letto che poteva essere lo spettro di una donna morta di freddo. Nel fumetto abbiamo seguito questa diceria alla lettera e Marta, il nome segreto che io e Laura abbiamo dato alla donna che poi sarebbe diventata la Pantafa, muore nel gelo della notte tra le macerie della sua casa. Tutto il resto della sua personalità è stato costruito istintivamente durante la scrittura. È stato bello avere il calco di questo personaggio, ma non la sua forma finale. Abbiamo avuto grandi libertà di manovra e la nostra versione si aggiunge alla leggenda, confermando il ciclo infinito delle revisioni e delle riscritture di questo genere di storie non scritte.

Nel racconto la generosità iniziale con cui il paese accoglie lo studioso e la disponibilità dei suoi abitanti a fornire materiale si trasforma in diffidenza e astio. Questa reticenza nel condividere la tradizione popolare influisce sulla difficoltà di tramandarla?
MT: Più che sulla reticenza ci siamo soffermati sulla furbizia della gente di Malanotte a trasmettere solo le informazioni convenienti. Lo fanno con malizia? Lasciamo la risposta al lettore. Almeno in un paio di passaggi abbiamo sottolineato il fatto che gli abitanti del paesello non sono tanto i custodi del folklore- un concetto inventato dagli studiosi e non da i popolani- ma una specie di palleggiatori del folklore: quando vogliono o quando gli conviene, passano la palla all’Ernesto di turno. Un paese che prima ti accoglie e poi ti scaccia è un’idea che ci andava di approfondire. L’abbraccio che diventa strangolamento, oltre ad essere uno stilema del genere, è anche il modo con cui spesso viene accolto l’estraneo: finché si fa gli affari suoi è ben accetto, ma quando inizia a rimescolare il torbido ecco che il meccanismo di difesa perfezionato ad arte della comunità si attiva implacabile.

LC: Grazie a Marco, che mi ha consigliato una quantità abnorme di libri, ho avuto la possibilità di farmi una mia idea di cosa significa tramandare un sapere fluttuante e magico. Il folklore era tale fino all’invenzione di supporti che lo incatenano- libri e nastri magnetici- e che ne hanno segnato la fine: per vivere ha bisogno della trasmissione orale, più che dell’esattezza di una registrazione o di un saggio. Così le storie cambiano insieme ai periodi storici e, in base a chi le racconta, ci sono particolari che vengono omessi o aggiunti: tutto funziona in maniera organica. Ernesto blocca gli ingranaggi oliati del folklore di Malanotte, cercando di dare una profondità storica a dei racconti narrati come fiabe. Questo gesto di rottura è lo stesso che abbiamo fatto io e Marco cercando di dare una dimensione storica alla Pantafa, senza rinunciare all’invenzione di una nostra versione personale della storia.

Questo progetto nasce insieme al film omonimo di Emanuele Scaringi interpretato da Kasia Smutniak. I soggetti hanno radice comune ma si sviluppano in trame molto diverse. Perché? Come è avvenuta la loro stesura, fino a che punto si sono sviluppati insieme?
MT: Malanotte è una specie di prequel a fumetti del film La Pantafa. Il lungometraggio di Scaringi era in fase di produzione quando abbiamo avviato il lavoro su Malanotte, ma film e fumetto si sono mossi in maniera alquanto indipendente. Se parliamo di ambientazione – il paese di Malanotte – e il lato fantasmatico della Pantafa, cioè gli elementi di raccordo tra le due opere, abbiamo ovviamente incrociato i flussi narrativi col film, ma per il resto abbiamo avuto la mano liberissima.

LC: Il fatto che film e fumetto erano in corso d’opera contemporaneamente, significa che io e Marco abbiamo fatto il prequel a fumetti di un film che non esisteva ancora! roba da pazzi se ci ripenso… però questa condizione particolarissima ci ha resi liberi di sviluppare senza inibizioni una storia che fosse solo nostra, sia a livello di tematiche affrontate da Marco (che non ricorrono nel film) sia sul piano visuale: ho potuto disegnare Malanotte senza farmi influenzare da un’opera preesistente.

La vostra storia ha linee narrative duplici: da un motivo di studio, il viaggio assume un carattere personale quando Ernesto rintraccia la storia del proprio nonno finito in manicomio e di suo padre, scappato dal paese dopo aver venduto la casa; la Pantafa è visione ma è stata carne; il menzionato atteggiamento degli abitanti del paese che prima accolgono e poi respingono. Ho la sensazione che questa duplicità si estenda alle scelte grafiche che mescolano tecnica digitale e disegno manuale, ma soprattutto un uso allucinato della luce, del controluce, della luce che emerge dall’oscurità, ma spesso è quella del fuoco dove si consuma la condanna o degli occhi vuoti dei bambini.
MT: In parole povere, Malanotte è una storia di genere horror e l’horror è fatto di forze che si contrappongono, siano anche semplicemente quelle che controllano la realtà come la conosciamo e quella sovvertitrice di quella realtà ovvero quelle soprannaturali. Se l’horror è uno scontro tra forze, il bianco e nero è il contrasto grafico per eccellenza, e la resa di una storia horror deriva principalmente dall’effetto che fa sul lettore quel contrasto grafico.
LC: Non mi ero mai soffermata sull’esistenza di un dualismo anche a livello grafico, oltre all’uso del bianco e nero intendo. In effetti non esiste solo il colore nero per far piombare una situazione nella più totale oscurità: anche la luce può diventare altrettanto accecante e insidiosa. Le ombre notturne dalla finestra o le lame di luce che filtrano di giorno dalle persiane, sono egualmente pericolose a Malanotte.