Non sono sempre simpatici o necessariamente onesti, talvolta contribuiscono a salvare delle vite, altre volte sono addirittura complici in violenze o omicidi. In tutti i casi, i flic di cui Olivier Norek racconta le storie in una serie di noir che ne hanno fatto un protagonista delle ultime stagioni del poliziesco d’oltralpe, sono sempre e prima di tutto persone, uomini e donne che non si limitano ad indossare una divisa. Come la capitana Noémie Chastain, ridotta in fin di vita e sfigurata dai colpi di uno spacciatore che lungo le pagine di Superficie, l’ultimo romanzo di Norek uscito in questi giorni per Rizzoli (pp. 330, euro 18, traduzione di Maurizio Ferrara) dovrà reinventare se stessa cercando allo stesso tempo di fare luce su una tragica storia di bambini scomparsi intorno ad un lago artificiale nel sud-ovest della Francia. Quarantasette anni, un passato nelle organizzazioni che si occupavano dei soccorsi umanitari durante la guerra nella ex Jugoslavia prima di entrare in polizia, dove ha passato oltre quindici anni di cui una buona parte nei commissariati della Seine Saint Denis, la vasta periferia settentrionale di Parigi nota anche come «il 93°», dal numero del codice postale della zona, Olivier Norek illumina di una luce nuova la scena del crimine, sfidando le convenzioni e le retoriche consolatorie per restituire dignità e spessore a figure spesso lasciate sullo sfondo. Con il suo approccio innovativo al noir lo scrittore francese è tra i protagonisti del festival Pordenonelegge: il suo intervento è fissato per domani sera alle 21 al Ridotto del Teatro Verdi.

Olivier Norek foto di Bruno Chabert
Olivier Norek – foto di Bruno Chabert

Lei è arrivato alla scrittura dopo quindici anni di lavoro in polizia: cosa significa raccontare vicende simili a quelle di cui si è stati a vario titolo protagonisti e quanto di autobiografico c’è nei suoi romanzi?
Penso che il romanzo poliziesco sia completamente democratizzato. Appartiene a tutti. Si deve solo cercare di raccontare le storie con un proprio punto di vista. Così, se sei un appassionato di storia punterai sullo sfondo di un’epoca, ad esempio l’America degli anni Venti, come ha fatto Luca Di Fulvio ne La gang dei sogni (Mondadori). Se hai curiosità culinarie punterai più su ciò che c’è nel frigo del protagonista più che sulle sue inchieste, come accade talvolta con il commissario Montalbano di Camilleri. Io che sono uno sbirro, un poliziotto abituato a lavorare sul campo, parlo di asfalto e violenza e la gran parte delle cose che racconto le ho viste o «respirate» in prima persona.

Il poliziesco e il noir si basano in genere sul profilo di chi svolge le indagini, agente o detective privato che sia, ma i suoi romanzi immergono profondamente il lettore nel «mondo dei flic», descrivendo anche le procedure, gli ingranaggi della burocrazia, il peso della gerarchia… Qual è la sua «visione» del noir?
Dal mio punto di vista, il noir è una sorta di romanzo storico anticipatore. Mi spiego, mentre nel poliziesco tradizionale ci sono un poliziotto e un assassino, e talvolta, anche se non sempre, il primo riesce ad acciuffare il secondo, nel noir ci si concentra meno sull’indagine per poter parlare anche d’altro. Si parla di noi, della società in cui viviamo, di ciò che rappresenta come di ciò che potrà diventare. Così, in tutti i miei libri ci sono omicidi e indagini, anche se spesso non è lì che si deve cercare il cuore della storia. In Superficie, ad esempio, credo che lo svolgersi dell’indagine possa catturare il lettore, ma ciò a cui tenevo soprattutto era mostrare la rinascita della protagonista, il modo in cui riesce a superare i suoi traumi, come accetta la propria difficile condizione. In questo senso, credo che il noir vada assumendo un nuovo profilo, sempre più profondo, «impegnato», arriverei a dire perfino militante. e a descrivere molto più che una semplice scena del crimine.

La straordinaria protagonista del romanzo, la capitana Noémie Chastain, colpita al volto dai proiettili di uno spacciatore durante un’irruzione degli agenti, fa pensare ad un personaggio reale. Si è ispirato a qualcuno?
Si, ad una mia amica, il suo nome è Babeth, una poliziotta nel 93°, come me, il dipartimento con il più alto tasso di criminalità di tutta la Francia. Una notte, l’equipaggio della sua auto fu chiamato ad intervenire d’urgenza alle due del mattino, in una cité di periferia. Al telefono, avevano parlato di un’aggressione a una donna, ma era una bugia, in realtà gli avevano teso una trappola. Quando i quattro agenti sono arrivati sul posto, hanno trovato una ventina di persone ad attenderli. Ricordo ancora una frase di Babeth: «Ho sentito il rumore del mio cranio che si rompeva sotto i colpi di una sbarra di ferro». Mi sono chiesto come avrebbe fatto a riprendersi. Poteva sprofondare in un divano, imbottita di antidepressivi o ansiolitici a seconda dei momenti, ma lei ha fatto il contrario, ha combattuto per andare avanti. Ed è stato il suo coraggio a costruire passo dopo passo l’eroina dei mio romanzo.

Sia Noémie che gli altri protagonisti sono descritti a partire dalle loro debolezze, dalla fragilità che esprimono al di là della forza che devono mostrare nel lavoro. L’empatia verso i personaggi è una delle caratteristiche dei vostri romanzi: non c’è posto per il cinismo in queste storie criminali?
Non c’è niente di più emozionante dei sentimenti dei personaggi, della loro profondità. Se uno di loro viene decapitato nelle prime pagine di un romanzo, non frega niente a nessuno, ma se impariamo a conoscere le sue debolezze, i suoi punti di forza, i suoi progetti, ciò che ama, ciò che lo fa soffrire… beh allora rischiamo davvero di fare nostri i suoi problemi, di preoccuparci dei guai che gli capitano quasi fossero i nostri. Alla base ci sono il poliziotto e il criminale, certo, ma se poi viene fuori che l’assassino ha anche un lato positivo o è meno condannabile di quanto pensassimo a prima vista? E che invece chi indaga non è proprio un eroe, non ci sta poi così simpatico? Spesso i miei eroi non sono proprio dei bravi ragazzi e i miei criminali ti fanno venire voglia di salvarli… Il cinismo? Diciamo piuttosto che gioco con la morale, o almeno è quello che ho cercato di fare sia in Tra due mondi (Rizzoli, 2018) – che segue le orme di Adam che fuggendo dal conflitto siriano finisce bella «giungla» del campo profughi di Calais -, che in quest’ultimo romanzo.

«Superficie» sposta la narrazione da Parigi all’Aveyron, nel sud-ovest del Paese, facendo letteralmente «venire a galla» in un lago creato da una diga ciò che vi è stato sepolto da tempo: crimini su cui non si è indagato e i segreti di una comunità di poche anime. Perché lasciare gli scenari metropolitani che le sono propri?
Per raccontare un altro aspetto del lavoro di poliziotto. Non si indaga allo stesso modo in una grande città e in un piccolo centro di campagna. In una metropoli come Parigi, nessuno conosce nessuno. Quindi, per cercare gli indizi si parte dalla tecnologia: dna, telefono, impronte digitali, identità sui social… Poi, solo dopo che è emerso di concreto qualcosa si passa alle persone in carne e ossa. L’opposto di quanto accade nei paesini, dove si conoscono un po’ tutti. Se muore qualcuno, ci si ricorda immediatamente di tutti quelli con cui aveva litigato. Se rubano un’auto, si pensa già a dove può essere stata nascosta. E, quale che sia il reato su cui si sta indagando, il colpevole è sempre un vicino, peggio ancora un conoscente o un membro di una famiglia che frequentiamo se non proprio della nostra. In questo caso, solo alla fine si cerca conforto nella scienza e nella tecnologia.

«Code 93», uno dei suoi libri più noti in Francia e la trilogia da cui prende il nome – ancora inedita in Italia -, ci portano in una delle periferie più «calde» di Parigi, quella della Seine Saint Denis: l’esperienza quotidiana in un commissariato di quel territorio conferma o smentisce i luoghi comuni sulle banlieue così presenti nel dibattito pubblico transalpino?
Non ho soltanto lavorato a lungo, ma vivo ancora oggi in una di queste periferie considerate «calde». E ne conosco tutta l’umanità, i sogni e le speranze: un orizzonte che non si può riassumere unicamente nelle auto bruciate o nelle rivolte urbane. Certo, scrivendo romanzi noir i miei personaggi e le mie storie hanno sempre un côté oscuro, spesso pericoloso. Ma, e ci tengo molto a riaffermarlo, c’è qualcosa di sublime in questi quartieri. E lo vivo ogni giorno. Così, anche se parlo della violenza intrinseca ai quartieri popolari, voglio far emergere anche personaggi pieni di speranza, positivi o pronti a cambiare, a pentirsi del male che hanno provocato. Nulla è del tutto bianco o del tutto nero, ma ogni cosa accade in questa formidabile ed emozionante zona grigia nella quale ci troviamo un po’ tutti.

In Francia il rapporto tra le forze dell’ordine e il resto della società si è fatto spesso molto teso, con le denunce sulle «bavures» compiute nelle banlieue come sull’uso eccessivo delle armi da fuoco. Cosa non va nella relazione tra gli uomini e le donne in divisa e il resto della popolazione?
Le rispondo parlando della mia teoria del «margine». Sappiamo ciò che interessa di più ai media sono i treni che arrivano in ritardo e non quelli che arrivano in tempo. Allo stesso modo, fanno più ascolto le rivolte nei quartieri periferici che le storie dei giovani che in quelle zone si impegnano in iniziative sociali positive e in grado di unire la popolazione. Non è diverso quando si parla di poliziotti: contano più quelli che sbagliano piuttosto che coloro che svolgono correttamente il proprio lavoro. Al contrario, io sono convinto che su 157mila agenti e gendarmi che ci sono in Francia chi sbaglia stia sul margine, rappresenti una piccola minoranza, esattamente come i giovani delle banlieue che bruciano le macchine. Solo che a forza di descrivere le cose in questi termini, quel «margine» diventa il tutto, finisce per occupare l’intera scena e offrire una rappresentazione falsata della realtà.